Mosca gode oggi del maggior grado d’influenza in Europa dai tempi dell’URSS, tornando a riproporsi quale modello alternativo rispetto a quello “occidentale”, ma dismettendo i panni rivoluzionari in favore di un rinnovato tradizionalismo.
Camminando per le caotiche vie del centro di Mosca, sovente può capitare di imbattersi nientemeno che in Karl Marx. Non si tratta di un anacronismo, dal momento che al filosofo tedesco è dedicata un’imponente scultura in pietra, che sovrasta la centralissima Piazza Teatral’naja e sembra fissare dritto verso il celebre Teatro Bol’šoj. Il blocco sottostante, su cui è posato il braccio destro del proto-comunista, recita a caratteri cubitali, in russo: “Lavoratori di tutti i Paesi, unitevi!“.
Quella sovietica è peraltro un’eredità pesante per la classe dirigente dell’odierna Federazione Russa, che ha spesso dimostrato di preferire semmai un rapporto di continuità ideale con l’Impero zarista, dedicandosi ad un’accurata opera di cherry picking dell’ottantennio socialista (come dimostrato dalle tiepide celebrazioni ufficiali del centenario della Rivoluzione d’ottobre). Eppure, se un elemento di continuità esiste, questo consiste indubbiamente nella capacità di attrazione che il Cremlino è in grado di esercitare su un’eterogenea serie di Paesi. In passato, la Russia svolgeva il ruolo di catalizzatrice, nonché sostenitrice assai attiva, dell’idea di egualitarismo comunista sostenuta dalle estreme sinistre europee; mutatis mutandis, oggi Mosca rimane in grado di esercitare una notevole influenza, ma in un contesto profondamente mutato.
Nel secondo dopoguerra, Mosca aveva attuato un’accurata e sistematica politica di ingerenza nei processi democratici delle potenze rivali, con sorti alterne
La caduta del Muro di Berlino ed il collasso dell’URSS (di cui Gorbačëv ed El’cin furono probabilmente meri notai) inflissero il colpo di grazia alla forma politica dell’ideale social-comunista. Il blocco che per quasi metà secolo aveva tenuto testa alla coalizione atlantista fu colpito lì dove basava la sua forza attrattiva, ma al contempo era più vulnerabile: l’ideologia, rivelatasi sua croce e delizia. Nel secondo dopoguerra, Mosca aveva attuato un’accurata e sistematica politica di ingerenza nei processi democratici delle potenze rivali, con sorti alterne: da un lato, essa trovò terreno abbastanza fertile in Paesi come l’Italia, dove il PCI si consolidò come principale antagonista della DC, pur sviluppando una crescente autonomia dal Comitato Centrale sovietico. In altri contesti, tale opera non sortì gli effetti sperati, principalmente a causa di un fattore fondamentale: l’esistenza di una contro-ideologia “d’assalto”, ugualmente impegnata a perorare la propria causa con qualsiasi mezzo, lecito e (soprattutto) illecito.
Anche quando sembrava che al Cremlino fosse stata servita l’occasione su un piatto d’argento, l’effettiva capacità di mobilitare ed influenzare le opinioni pubbliche occidentali non risultò decisiva. Se è vero che le mobilitazioni a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70 (Maggio francese e cultura hippie, su tutte) insistevano su temi tipicamente di sinistra, è altrettanto vero che Mosca costituiva agli occhi della maggioranza dei manifestanti parte del problema, non già della soluzione (nello specifico, l’URSS cercò di veicolare le proteste pacifiste attraverso un ente sottoposto al suo controllo, il Consiglio Mondiale per la Pace, che però incontrò numerosi ostacoli a causa della sua palese affiliazione con la politica estera dell’Unione Sovietica).
Oggi, ironia della sorte, a cercare sponde a Mosca (e viceversa) non sono più le estreme sinistre europee, bensì una folta schiera di partiti tipicamente di estrema destra, predicanti nazionalismo e sovranismo. È proprio nel sovranismo che Mosca sembra essere ri-assurta a potenza ideologica. Nel contesto europeo attuale, ça va sans dire, “sovranismo” coincide quasi del tutto con “euroscetticismo“. Non è un caso che la Russia goda di gran prestigio presso quei soggetti politici a favore di un rinnovato primato degli Stati nazionali, quelli maggiormente critici, quando non apertamente ostili, nei confronti dell’UE. Il gruppo in questione include attori che, chi più e chi meno, vedono nella Russia di Putin un baluardo di tradizionalismo e nazionalismo: dal Partito della Libertà austriaco (FPÖ) alla Lega Nord italiana, dal Front National francese ad Alternativa per la Germania, passando per il Fidesz ungherese ed il Partito per la Libertà olandese (PVV). Tra l’altro, non mancano all’appello anche partiti di sinistra, come il Partito dei Diritti Civili ceco.
Tale fenomeno ripulsivo è comprensibilmente visto con favore a Mosca, che è stata inoltre accusata di fomentarlo, diffondendo fake news propagandistiche attraverso “media di Stato”, oltre che con un “esercito” di trolls cibernetici. Quale sia l’esatta misura del coinvolgimento russo nel terremoto politico in corso in Europa, però, è ancora difficile da stabilire. Difatti, l’impetuosa avanzata del sentimento populista in Europa (ma non solo) è con ogni probabilità un fenomeno endogeno, che Mosca si limita a cercare di incanalare per ricavarne un vantaggio. È del resto immaginabile che il Cremlino quantomeno sfrutti questa sua seconda giovinezza di popolarità per rompere la situazione di parziale isolamento internazionale, creatasi dopo la crisi di Crimea, e per ridurre le file del fronte pro-sanzioni. Ora come allora, Mosca è figurativamente la capitale del “modello contrario a quello prevalente”. Tale tendenza va letta alla luce dell’obiettivo della Russia di diventare una superpotenza anche sotto il profilo del soft power (come lo era l’URSS, per motivi diversi), come sottolineato dal nuovo ruolo da attore-mediatore in numerosi scenari internazionali (vedansi Palestina ed Afghanistan).
Per quanto giuridicamente ed eticamente censurabili, va però detto che i tentativi di influenzare i processi politici altrui sono una pratica tanto antica quanto la diplomazia, ed interessano tutti i maggiori protagonisti sulla scena internazionale (anche chi oggi condanna a gran voce Mosca). Nel caso specifico russo, ciò pare funzionale soprattutto ad interessi di politica interna e di indebolimento delle potenze avversarie.
D’altronde, il principio secondo cui “la miglior difesa è l’attacco” era ben noto anche agli zar.
* In copertina: Vladimir Putin stringe la mano a Milos Zeman, Presidente della Repubblica Ceca (The Russian Presidential Press and Information Office)