La conferenza del 29 e 30 gennaio a Soči sarebbe dovuta essere la più importante di un ciclo di negoziati intrapreso sotto gli auspici di Mosca e finalizzato a sancire la supremazia diplomatica di Putin in Siria. Un obiettivo raggiunto solo a metà, dato il boicottaggio del tavolo negoziale da parte delle opposizioni più intransigenti e dei curdi. Il gioco tra Putin ed Erdoğan potrebbe essere costato caro.
Innanzitutto le date. La conferenza di Soči si è tenuta il 29 e 30 gennaio, a meno di due mesi dalla tornata elettorale che dovrebbe riconfermare la permanenza di Putin al Cremlino, nonché pochi giorni dopo i colloqui paralleli di Vienna (portati avanti dall’ONU nel solco del processo politico di Ginevra).
Come notato da parecchi analisti, la conferenza non è stata quel successo tanto sperato a Mosca, per via delle numerose diserzioni (e addirittura contestazioni rivolte a Lavrov) e della complicata situazione sul campo in Siria. Benché il vantaggio militare e diplomatico (in una parola, politico) della Russia nei confronti dei rivali resti più che ampio, i profitti sul breve periodo e in termini di immagine non si sono visti.
Ma cosa sperava di ottenere, il Cremlino, in tali circostanze? Per capirlo, è necessario fare qualche passo indietro.
L’intervento russo in Siria, agli occhi degli osservatori internazionali, è stato spesso giudicato insostenibile nel lungo periodo per via dei costi economici che comporta alle finanze di Mosca, non proprio in stato di grazia (benché in ripresa) negli ultimi anni. In realtà non si tratta di costi elevatissimi (circa 4 milioni di dollari al giorno), soprattutto se paragonati a quelli della coalizione a guida americana contro lo Stato Islamico.
Si è parlato meno, tuttavia, in Occidente e senz’altro in Russia, dei costi sociali e politici dell’operazione. L’intervento ha già lasciato sul campo tra le 30 e le 50 vittime tra i soldati regolari (76 secondo Reuters). Poi ci sono i contractors, almeno 3000, provenienti in buona parte dalla Cecenia di Kadyrov o da altre repubbliche periferiche della Federazione. Di loro si sa di meno, ma le stime indicano un numero di perdite variabile tra le 73 e le 101 unità.
Al di là delle vittime, l’azione in Siria non è stata di certo tenuta nascosta dai media russi, i quali hanno anzi spinto verso la glorificazione delle gesta belliche in sostegno di Assad, secondo i voleri del Cremlino. L’esposizione mediatica però è stata un’arma a doppio taglio, dato che, a giudicare dai sondaggi, l’intervento russo è sempre più impopolare tra i cittadini della Federazione (sarebbe sostenuto apertamente solo dal 30% di essi). Sono in molti, infatti, a chiedersi perché Mosca debba sostenere un conflitto lontano, privo di contropartite tangibili per buona parte delle persone comuni. Una domanda che è cresciuta dopo la sostanziale sconfitta dello Stato Islamico, e che continuerà a crescere insieme ai timori di un “nuovo Afghanistan” (il trauma degli anni Ottanta non è ancora stato del tutto assorbito).
Sono in molti, in Russia, a chiedersi perché debbano sostenere un conflitto lontano, privo di contropartite tangibili per buona parte delle persone comuni.
Cupcake Ipsum, 2015
Putin si è trovato così a dover promettere fin da subito vie d’uscita, con proclami di dubbia credibilità e consistenza: il primo nel marzo 2016, a soli sei mesi dall’inizio delle operazioni in Siria; il secondo nello scorso dicembre, durante una visita lampo del Presidente russo in Medio Oriente.
È sempre più chiaro, tuttavia, che per averne un riscontro elettorale non bastino le parole. Di retorica sulla Siria ne è stata fatta tanta, in questi anni, e lo stesso Cremlino ha più volte sottolineato l’incoerenza delle altre potenze, in merito alla reale volontà di combattere il terrorismo o di raggiungere una pace durevole a Damasco.
Ecco che allora cresce l’esigenza di dare un seguito, sia alle parole che alle azioni militari sul campo. Il formato di Astana, inaugurato già a inizio 2017, ha consentito alla Russia di sedersi a capo di un nuovo processo negoziale: incanalato su sviluppi molto più favorevoli ad Assad, ma al tempo stesso portatore di una pluralità di interessi che avrebbe dovuto garantire l’equità delle sue soluzioni. La Turchia, infatti, con l’ennesima giravolta diplomatica ha contribuito a dare una parvenza di completezza ad un tavolo nel quale l’assenza occidentale fa rumore.
Ma la stessa Turchia, se da un lato ha consentito alla Russia di conseguire dei primi, importanti successi di immagine, dall’altro sta rischiando di compromettere l’efficacia politica dei negoziati.
L’operazione “Ramo d’ulivo”, messa in atto proprio nelle ultime settimane (e fortemente sostenuta, in patria, dai turchi), sta concretizzando i timori dei curdi, sempre più isolati in Siria. A fronte delle incursioni militari di Ankara nella provincia di Afrin, infatti, i curdi hanno assistito alla singolare coincidenza del ritiro delle forze russe dall’area. Un evento che rafforza dunque la convinzione di non potersi fidare delle promesse di nessuno, nemmeno di quella Russia che è stata aiutata, in modo determinante, nella guerra contro l’ISIS.
Sui motivi che spingerebbero Mosca ad un simile voltafaccia, si discute da giorni tra gli addetti ai lavori. Forse la mossa fa parte di una strategia complessiva volta all’innalzamento delle tensioni tra Turchia e USA, congeniale alla Russia. Ma l’ipotesi più probabile è quella di uno scambio di favori tra Putin ed Erdoğan: il primo avrebbe abbandonato i curdi siriani in cambio della promessa di Ankara di non ostacolare il processo di pace con i movimenti dei ribelli filo turchi, tra gli ultimi baluardi, nella Siria nordoccidentale, di resistenza all’avanzata vittoriosa di Assad.
Se così fosse, potrebbe essere stato uno scambio avventato. L’interesse immediato di Putin è infatti quello di giovarsi subito, prima delle elezioni, di progressi tangibili nel processo di pace siriano. L’isolamento curdo, però, potrebbe allontanare la pace, almeno quella a breve termine.A Soči è andato in scena uno spettacolo mediocre, forse solo appena più consistente rispetto ai negoziati patrocinati dall’ONU: oltre all’assenza dei curdi, ha fatto rumore quella di 120 delegati dell’Esercito Siriano Libero sostenuti dai turchi, che in teoria avrebbero dovuto onorare l’accordo tra Putin ed Erdoğan.
Oltre il danno, quindi, la beffa. Che rischia di ritorcersi contro lo stesso Putin.
È vero che non sarà la Siria a spostare gli equilibri, in un ipotetico colpo di scena nelle Presidenziali del 18 marzo: crisi economica, corruzione, salari e imposte sono temi certamente più sentiti dalla popolazione. Ma è anche vero che Putin non vuole rischiare nulla (come già dimostrato nel caso Naval’nyj). Non più, dopo aver sudato freddo nella doppia tornata elettorale del 2011/2012, nella quale la sua elezione fu seriamente messa in dubbio da scandali interni al partito di governo Russia Unita e manifestazioni senza precedenti.
Da maggior successo internazionale di Putin, la Siria potrebbe trasformarsi in un catalizzatore del malcontento interno. Per fortuna del Presidente, però, ormai le elezioni saranno a breve. Troppo presto per pensare già al rischio di un nuovo Afghanistan.