Dopo il suo ritorno al potere nel 2012, Putin ha smantellato parte del network che aveva guidato i principali organi della Federazione nel quadriennio precedente. Una scelta dettata sia dall’impopolarità di Medvedev presso certi ambienti oligarchici e governativi (amplificata dalle proteste a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012), sia dalla necessità di Putin di rimettere ordine al sistema di governo della Federazione, rendendolo più consono al suo stile di guida.
Il nuovo modello stabilito dal Presidente prevede al tempo stesso un accentramento del potere nella sua figura (almeno rispetto al modello bipolare del tandem Medvedev-Putin 2008-2012) e una distribuzione dello stesso tra i vari gruppi più vicini al Cremlino, legati principalmente alle compagnie di stato, alle agenzie di sicurezza e alla stessa amministrazione presidenziale.
La rotazione tra i membri del clan presidenziale è diventata il principio cardine dell’azione politica di Putin all’interno del Cremlino, e gli ha permesso di sostituire in modo indolore membri della vecchia guardia con giovani leve, più fresche e potenzialmente più fedeli. Un meccanismo evidente soprattutto nella seconda fila dell’élite, laddove la competizione per entrare nel “cerchio magico” è più serrata.
La rotazione tra i membri del clan presidenziale è diventata il principio cardine dell’azione politica di Putin all’interno del Cremlino
Cupcake Ipsum, 2015
Ma chi sono, oggi, gli uomini più vicini a Putin?
Facendo riferimento all’accurato lavoro di analisi del Minchenko Group Consulting, ad oggi forse il termometro più affidabile delle vicende interne al Cremlino, possiamo individuare cinque personaggi chiave: l’attuale premier Medvedev, il ministro della Difesa Šojgu, il sindaco di Mosca Sobjanin, il ceo della Rostec Čemezov, il businessman (e capofila degli innovatori) Koval’čuk.
Per Medvedev, formalmente il più importante e di gran lunga il più conosciuto all’estero, dopo la rielezione di Putin si prevede il mantenimento della carriera da premier, la guida della Corte Suprema o la leadership di Gazprom (per la quale, però, dovrebbe scontrarsi con certi big del mondo energetico a lui già ostili). Dunque non il salto di qualità del ritorno alla presidenza, nonostante la giovane età e l’esperienza giochino ancora a suo favore. Gli scandali, l’impopolarità e l’ascesa di nuovi competitors dovrebbero bloccare le sue ambizioni.
Dei restanti quattro, solo Sobjanin sembra avere un progetto di lungo termine (legato allo sviluppo urbanistico di Mosca), mentre gli altri sembrano loro malgrado più condizionati dagli eventi. In particolare, Šojgu potrebbe risentire di eventuali sviluppi negativi della guerra in Siria, mentre le fortune di Koval’čuk potrebbero dipendere dal modello economico di crescita che la Russia adotterà nei prossimi anni.
Non bisogna dimenticare, infatti, che alle spalle di ognuno di questi uomini agiscono dei forti gruppi di pressione, la cui fortuna (economica o strutturale, in termini di influenza sul potere) determina anche le sorti politiche dei loro stessi rappresentanti.
Immediatamente dopo le cinque figure chiave appena elencate, non si possono non citare altri tre elementi fondamentali, benché a rischio caduta: Igor’ Sečin, Vjačeslav Volodin e Arkadij Rotenberg. Il primo, l’influentissimo capo della Rosneft, è stato a lungo considerato il secondo uomo più potente di Russia, ma ultimamente sembra stia perdendo posizioni (probabilmente a causa dei troppi nemici creati nel settore energetico); il secondo, presidente della Duma nonché uno dei pochi politici professionisti vicini a Putin, sembra rischiare molto la sua posizione a causa del ridimensionamento del parlamento nei giochi di potere ai livelli più alti; il terzo, manager di successo nel settore delle infrastrutture, è entrato di recente nella lista dei soggetti presi di mira dalle sanzioni internazionali contro la Russia.
Oltre questi, una pletora di potenziali membri del cerchio magico affolla le sale del potere: dal ministro degli Esteri Lavrov al presidente della Cecenia Kadyrov, dal portavoce del Cremlino Peskov all’ideologo Surkov (solo per citare solo i nomi più conosciuti in Occidente).
Negli anni, la gara per la successione a Putin (nonostante fosse chiaro che quest’ultimo avrebbe continuato anche dopo il 2018) si è resa sempre più evidente, ed ha accresciuto paradossalmente il ruolo del Presidente stesso, unico arbitro e moderatore tra i vari gruppi di potere.
L’appuntamento elettorale del 18 marzo, tuttavia, non viene generalmente visto dall’élite vicina al Presidente come un’opportunità per un ricambio politico, neppure se limitato ai corpi intermedi dello Stato.
Gli esempi provenienti dall’Occidente, come la presidenza Trump (azzoppata dai sabotaggi dell’apparato burocratico, così come dall’ostilità di buona parte del Congresso e dei media) o la debolezza dell’Unione Europea (incapace di dotarsi di una linea condivisa, specie in politica estera, anche per la multipolarità dei suoi processi decisionali) alimentano infatti lo scetticismo dei russi nei confronti della democrazia, delle sue istituzioni e dei suoi riti.
Molto meglio una guida forte e incontestata, tanto più che di fronte a un mondo in cui le crisi si moltiplicano (e in cui la Russia vuole tornare sempre più a giocare il suo ruolo da protagonista) solo gli attori più stabili riusciranno a prevalere. E pazienza, quindi, se le ambizioni personali di alcune figure, ovvero quelle poche che possono ad oggi sperare in una successione del Presidente (nel 2024, sia chiaro), verranno sacrificate sull’altare della realpolitik.
Del resto, per la selezione del nuovo leader, c’è ancora qualche anno di tempo.