La scorsa settimana si è celebrato il centenario del Trattato di Brest-Litovsk, una pietra miliare della geopolitica dell’Europa dell’Est. Esaminiamo qui l’importanza storica dell’evento in sé, nonché l’evoluzione della sua lettura storiografica nell’Unione Sovietica e nella Russia di oggi. Brest-Litovsk rappresenta un passato con cui non si sono ancora fatti del tutto i conti.
Sono passati pochi mesi dal centenario della Rivoluzione russa, spartiacque storico tra i più importanti del XX secolo. Un anniversario che in Russia è quasi passato in sordina, per via della volontà politica di non esaltare un movimento rivoluzionario poco “educativo” nella sua genesi e nelle forme in cui ha preso il potere. Come ha fatto notare William Pomeranz, del Kennan Institute, sono altri gli elementi che Putin ha scelto di prendere in prestito dal passato sovietico della sua nazione: lo status di grande potenza, il controllo dell’economia, la stabilità politica interna e la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, celebrata trionfalmente il 9 maggio di ogni anno.
Se il centenario della Rivoluzione non è stato dimenticato, buona parte del merito deve essere attribuito alla grande attenzione mediatica e culturale dedicatavi in Europa (già concentrata in questi anni sulle commemorazioni della Prima Guerra Mondiale): moltissimi sono stati infatti gli eventi e le riflessioni riservate alla storia russa del XX secolo, nell’anno da poco trascorso.
Un altro centenario, strettamente collegato alla Rivoluzione, è stato appena celebrato. Questo sì davvero in sordina, dato che in Russia vi è poca voglia di ricordare una sconfitta e in Occidente non si è mai dato sufficiente risalto alla storiografia pubblica di tale evento, erroneamente giudicato “lontano”.
Parliamo del trattato di pace di Brest-Litovsk, firmato il 3 marzo 1918 dalla Russia rivoluzionaria e dagli Imperi Centrali, nel quadro di una Prima Guerra Mondiale ormai quasi giunta al suo epilogo. Un evento epocale, che non sancì solo la (formale) chiusura del fronte orientale, ma segnò profondamente la storia dell’intera Europa dell’Est.
“Un attimo di respiro”: questo era ciò che cercava Lenin alla fine del 1917, all’indomani cioè dell’appena compiuta Rivoluzione d’Ottobre. I bolscevichi erano infatti assediati da fame, carestie, diserzioni e prime pulsioni controrivoluzionarie, oltre che dagli attacchi militari degli Imperi Centrali, coi quali la guerra non si era ancora conclusa.
La pace era dunque una condizione necessaria per proteggere il “figlio vitale in fasce”, secondo la definizione di Lenin, ovvero il nuovo Stato rivoluzionario sorto sulle ceneri del vecchio impero zarista. Per ottenerla, i sovietici erano disposti a tutto: anche a enormi concessioni militari e territoriali. Benché l’accordo del 3 marzo giungesse dopo mesi di trattative, la situazione generale era divenuta così drammatica che Sokol’nikov, capo della delegazione russa, alla fine firmò “senza neppure leggere gli articoli del trattato”.
Tuttavia non si giunse ad una vera tregua. La celebre formula di Trockij, “né guerra né pace”, fu interpretata opportunisticamente dai tedeschi, o quantomeno li portò ad occupare vaste porzioni della Polonia, dei Paesi Baltici, della Bielorussia e soprattutto dell’Ucraina senza timori di reazioni da parte dei russi, impossibilitati ad opporsi militarmente. Inoltre la situazione spinse gli stessi sovietici a spostare la capitale da Pietrogrado a Mosca, nel timore di un’aggressione tedesca che potesse spegnere il “cuore” della Rivoluzione.
Le condizioni imposte ai bolscevichi furono durissime. La Russia perse un quarto del suo territorio europeo, comprendente un terzo (62 milioni) della sua popolazione totale, un terzo delle sue terre coltivabili, la metà delle industrie e il 27% del suo reddito nazionale complessivo. In più, lo scoppio della guerra civile e di diverse guerre di confine annullarono in parte i vantaggi tattici dell’accordo raggiunto, obbligando i bolscevichi a puntare tutto sul potenziamento della neocostituita Armata Rossa per sopravvivere.
L’accordo di Brest-Litovsk, osteggiato dall’Intesa, fu abrogato formalmente dall’Armistizio di Compiègne dell’11 novembre 1918 e dalla successiva Pace di Versailles. Ma i suoi effetti geopolitici furono radicali e irreversibili, soprattutto per gli Stati di nuova indipendenza dell’Europa orientale.
La Finlandia, i Paesi Baltici, la Polonia, l’Ucraina e le repubbliche del Caucaso dichiararono infatti la propria indipendenza all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, nel clima di preparazione alla stipula di Brest-Litovsk o negli sviluppi immediatamente successivi. Tali Paesi erano incoraggiati dalla ritirata dei bolscevichi ed in certi casi foraggiati dalla Germania, che vi fece installare dei governi fantoccio, da Helsinki a Kiev. Ancora oggi, quelle date a cavallo tra il 1917 e il 1918 sono festeggiate in molti Paesi dell’Europa orientale per la liberazione dal dominio russo.
Per quanto riguarda la nascente URSS, invece, Brest-Litovsk rappresentò un trauma storico difficile da rimarginare. Già la decisione dell’accordo era stata osteggiata da una grande fetta dei dirigenti bolscevichi, e fu deliberata solo grazie al determinante appoggio di Trockij alle idee di Lenin. Oltre alla perdita dei territori storicamente appartenuti all’Impero Russo, infatti, i sovietici dovettero abbandonare i propositi di una rivoluzione mondiale (che poteva essere portata avanti, in Europa, quasi solo attraverso la continuazione della guerra). L’ambizione suprema per molti rivoluzionari della prima ora veniva stroncata in favore di un approccio più realista, volto a tutelare la sopravvivenza del nuovo Stato.
L’Unione Sovietica dovette aspettare diversi anni per essere riammessa tra le potenze europee, e più in generale nel sistema internazionale che si andava delineando nel primo dopoguerra. Paradossalmente, il ritardo nella normalizzazione dei rapporti con l’Occidente riavvicinò Mosca ai suoi vecchi nemici germanici e anatolici (o meglio, ai loro eredi): la Repubblica di Weimar e la Repubblica di Atatürk, ovvero gli altri due grandi esclusi del nuovo ordine stabilito dai vincitori. Dinamiche che a loro volta influenzarono profondamente gli eventi dei decenni successivi.
L’Unione Sovietica dovette aspettare diversi anni per essere riammessa tra le potenze europee. Il ritardo nella normalizzazione dei rapporti con l’Occidente riavvicinò Mosca ai suoi vecchi nemici, la Germania e la Turchia.
by Author
La storiografia sovietica ha cercato di attribuire due significati a Brest-Litovsk. In primis, l’ha giustificata dando enfasi alle posizioni anti-militariste e anti-imperialiste dei bolscevichi, soprattutto negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione; secondariamente, ha favorito la lettura di una pace imposta dall’aggressivo accerchiamento dei propri nemici. In generale, Brest-Litovsk è stata vista come un passaggio necessario nel percorso di ascesa del socialismo sovietico.
Negli ultimi anni, le posizioni storiografiche si sono ribaltate. Da una parte si è assistito ad una rivitalizzazione degli studi relativi alla Prima Guerra Mondiale, con una rivalutazione storica complessiva del sacrificio dell’esercito zarista nel triennio 1914-1917 (1.700.000 di caduti). Dall’altra parte, Brest-Litovsk in Russia è vista sempre più come un atto di tradimento degli interessi nazionali della patria, che mai come in quegli anni si era avvicinata a realizzare alcuni dei suoi più grandi obiettivi di politica estera (come la conquista degli Stretti in terra ottomana).
Si è affermata quindi la nostalgica percezione di una “vittoria perduta“, in cui (a differenza, ad esempio, della “vittoria mutilata” italiana) le responsabilità storiche della leadership al potere nel biennio 1917-1918 sono considerate almeno equivalenti, se non superiori, a quelle degli alleati di un’Intesa irriconoscente verso il contributo russo all’esito finale del grande conflitto.