Tra i maggiori e più visibili successi della terza presidenza Putin, vi è stato senz’altro il consolidamento del ruolo internazionale della Russia. Un elemento oggettivo, che nemmeno i detrattori più accaniti del leader del Cremlino possono facilmente smentire.
Non deve dunque sorprendere se la campagna elettorale russa, ormai giunta alla sua conclusione, non ha visto i temi di politica estera (tradizionalmente molto seguiti) al primo posto del dibattito tra i candidati. In un Paese dove il prestigio nazionale è ancora individuabile come una componente essenziale del favore dell’opinione pubblica, contrastare l’agenda di Putin su questo fronte sarebbe stato imprudente per qualsiasi candidato alla sua successione.
Eppure qualcuno ha provato a farlo, in modo avventato e quasi sospetto.
È il caso di Ksenija Sobčak, unica candidata ad affermare l’illegittimità del possesso russo della Crimea. Una tesi parecchio impopolare in Russia, esattamente come chi l’ha pronunciata. Peraltro, una vicenda che ha avuto l’effetto di un boomerang sulla stessa Sobčak, data l’ostilità mostrata da Kiev nei suoi confronti.
La candidata è stata inoltre la sola, insieme a Javlinskij, a sostenere la necessità di un nuovo dialogo con l’Europa, di una riaffermazione della tutela dei diritti umani anche in ambito di trattati internazionali, e del ritiro delle truppe russe dalla Siria.
Su questi punti, la maggior parte dei candidati è stata vaga. Grudinin, Baburin e Titov non si sono esposti molto sui rapporti con l’Europa, se non attraverso generici auspici di un ristabilimento di “relazioni eque” (Baburin) o di un esame della questione delle sanzioni (Titov).
Per i comunisti Grudinin e Surajkin le relazioni internazionali vanno lette ancora sotto le lenti ideologiche, almeno a giudicare dai loro programmi. L’uscita dal WTO (Grudinin) o la ricreazione di un nuovo Patto di Varsavia (!), ovviamente aggiornato ai dettami del nuovo antimperialismo (Surajkin), non sembrano particolarmente in linea con le attuali dinamiche internazionali della Federazione russa.
Un tema caro a molti è quello relativo alla protezione dei cristiani (ortodossi e non) nel mondo, e più in generale dei russi residenti all’estero. Problema sentito soprattutto nelle repubbliche baltiche, in Ucraina e in tutti quei Paesi dove l’identità o l’esistenza stessa dei russi (e russofoni) è seriamente minacciata. È il fondamento “legale” del revisionismo di Žirinovskij, che con la scusa della tutela delle minoranze all’estero propone l’indizione di referendum di annessione alla Federazione in tutti i territori perduti dall’URSS (e persino dalla Russia zarista).
Žirinovskij è di fatto l’unico candidato “più realista del re”. Superando con la propria retorica anche le azioni internazionali più forti e spregiudicate di Putin, rappresenta per il Cremlino un termometro necessario: con la sua opposizione di destra, infatti, garantisce un certo controllo sulle pulsioni più aggressive, revisioniste e xenofobe della società russa e fa apparire Putin come un centro equilibrato del sistema.
In generale, le proposte di politica estera dei sette sfidanti di Putin scontano due grandi problemi, tra di essi correlati: la loro scarsa credibilità (e in certi casi la loro incredibilità) e la pressoché totale assenza di esperienza internazionale dei loro estensori.
Di fronte a un lupo navigato come Putin, le timide (o improponibili) alternative dei suoi oppositori non convincono i russi. Tanto più in una fase internazionale critica, in cui serve una mano ferma e autorevole, nonché una certa stabilità e coerenza nei comportamenti.
A meno di disastri politici, chi nei prossimi anni (ormai è troppo tardi) vorrà opporsi al sistema dovrà farlo su altri fronti. Magari quelli sociali ed economici, che presentano più incognite.