Nell’immagine: Sessione del Congresso siriano per il dialogo nazionale, Soči (Russia), 30 gennaio 2018. (Reuters)
Le recenti elezioni presidenziali hanno visto uscire largamente (e prevedibilmente) vincitore Vladimir Putin, che ha lanciato importanti sfide per il futuro della Federazione. Tra le promesse più altisonanti si possono citare la lotta alla povertà e l’aumento generale del benessere dei cittadini, temi sicuramente molto spinosi, in primis per la necessità di misure economiche ingenti.
Non sarà facile reperire gli strumenti necessari, particolarmente in questa fase caratterizzata da una crescita positiva, ma piuttosto rallentata, dal prezzo basso delle materie prime (soprattutto del petrolio), dalle sanzioni anti-Mosca e dall’attività russa sui fronti esteri, a partire dalla Siria. Il conflitto armato siriano ha sicuramente subito una svolta decisiva con l’intervento militare del Cremlino nel settembre 2015: Damasco ha riconquistato gran parte del territorio perduto e importanti e simboliche città, su tutte Palmira, Aleppo e Deir ez-Zor; Bashar al-Assad ha mantenuto il potere e la sopravvivenza del suo governo; Mosca è tornata a giocare un ruolo da protagonista in Medio Oriente, facendolo in quel crocevia geopolitico che è da sempre la Repubblica Araba Siriana. Ma tutto ha un costo, anche l’impegno russo.
Gli scontri continuano tuttora e nessun nemico sembra essere definitivamente sconfitto; dopo la riconquista di Aleppo (dicembre 2016), il ministro della Difesa Sergej Šojgu già avanzò la proposta del graduale disimpegno delle truppe russe presenti in Siria ma, nonostante la successiva sconfitta sul campo dello Stato Islamico, ad oggi manca ancora il capitolo conclusivo della tragedia siriana. Di sicuro è prematuro e sbagliato paragonare lo scenario siriano al “pantano afghano” degli anni Ottanta, ma il ritardo di una vittoria decisiva, il momentaneo indebolimento del ruolo diplomatico (il “mezzo passo falso” di Soči), la sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica e i costi delle operazioni militari sottraggono importanti risorse all’economia domestica.
Il livello della distruzione in Siria è tale da rendere impossibile qualsiasi progetto o intervento unilaterale.
Allo stesso tempo, non bisogna sottovalutare l’investimento russo in Siria. Gli accordi commerciali e i progetti siglati mantengono una grande rilevanza tutt’oggi in vista della ricostruzione siriana, su cui convergono anche i grandi interessi di Iran e Cina. Lo stesso ambasciatore russo a Damasco Aleksandr Kinščak, intervistato da TASS (10 febbraio 2018) ha fatto appello ai colleghi del gruppo BRICS e a Teheran, esortando a cooperare coloro “che conducono una politica estera indipendente e sono interessati a consolidare le loro posizioni nel promettente mercato siriano” (qui l’intervista originale).
La sola Russia non può evidentemente assumersi tutti gli oneri e i costi delle riparazioni: il livello della distruzione in Siria è tale da rendere impossibile qualsiasi progetto o intervento unilaterale e, secondo alcune stime ONU, sarebbero necessari investimenti superiori ai 200 miliardi $USA per ritornare alle condizioni economiche pre-crisi. Somme elevatissime, che caratterizzano una devastazione immane e trasversale di tutti i settori dell’economia siriana.
Ma la sola Russia non vuole e non ha nemmeno interesse di monopolizzare i progetti di ricostruzione, quanto piuttosto di consolidare la sua presenza nella fascia costiera della Siria, ricca e stabile. Qui mantiene i suoi principali interessi ed investimenti: da Latakia a Baniyas, capolinea terrestre dell’oleodotto proveniente dall’Iraq, fino al porto di Tartus. Quest’ultimo, concesso dal 1971 all’Unione Sovietica, è ancora oggi l’unica base navale russa fuori dai territori dell’ex-URSS e l’unica nei mari caldi. Subito dopo la riconquista di Aleppo, nel dicembre 2016 Vladimir Putin ha firmato l’ordinanza (Распоряжение Президента Российской Федерации от 23.12.2016 г. № 424-рп) riguardante l’accordo russo-siriano sull’ampliamento delle infrastrutture aero-navali di Tartus e degli spazi logistici necessari. Damasco, in segno di riconoscenza per il supporto militare fornito, ha così riconosciuto la sovranità della Russia sul territorio della base.
Per sottolineare ulteriormente l’importanza di questa regione, basta pensare che già nel febbraio 2016, con la guerra ancora nel suo pieno svolgimento e molte grandi città ancora sotto assedio (come la stessa Aleppo), sempre l’ambasciatore Kinščak annunciava l’intraprendenza commerciale di Mosca in terra siriana. Contattato da Rossija segodnja (9 febbraio 2016), il diplomatico affermò che una grande azienda russa (non citata) aveva già presentato importanti progetti per il periodo post-bellico e che altre compagnie avevano intenzione di cooperare pienamente e partecipare alle gare d’appalto. Proseguendo, l’ambasciatore ha comunicato che, nonostante le difficoltà, era già stato siglato un accordo per la costruzione congiunta russa-bielorussa-siriana di un impianto energetico nei sobborghi di Damasco e che proprio nella fascia costiera, laddove si concentrano le principali attenzioni russe, già era stato avviato un attivo mercato alimentare di import-export a Latakia per la rotta commerciale con il porto russo di Novorossijsk.
Mosca sembra dunque sapere dove e come investire nell’alleato siriano, usando la giusta attenzione. Putin sa che durante questo mandato dovrà conciliare il rinnovato (e costoso) peso internazionale del Cremlino con gli obiettivi nazionali. Il Presidente russo dovrà far sì che la politica estera multilaterale e le ambizioni domestiche non diventino un bivio, un aut-aut, per cui proseguire su un percorso non comporti l’esclusione dell’altro, soprattutto adesso che Mosca si è riscoperta protagonista dello scenario globale. L’accortezza degli investimenti mirati in una Siria da ricostruire sembra essere un primo segnale, perché tutto ha un costo, anche l’impegno russo.
Mattia Baldoni