Potenza globale per dimensioni geografiche, eredità storica e armamenti (specie se si considerano quelli nucleari), la Russia resta un Paese vulnerabile sotto un profilo tutt’altro che secondario: l’economia.
Non è tanto il PIL (inferiore a quello italiano) a preoccupare il Cremlino, bensì altri fattori, quali la dipendenza finanziaria dalla vendita delle risorse energetiche, la corruzione diffusa, la scarsa competitività del sistema.
Sebbene l’economia russa abbia dimostrato di saper reggere (e reagire, dati gli ultimi indicatori) allo shock del 2014-15, quando la concomitanza delle sanzioni e soprattutto della crisi del rublo e della caduta delle rendite energetiche hanno messo a dura prova il bilancio pubblico, le prospettive per i prossimi anni non sono rosee. Nel 2017, l’economia russa è cresciuta dell’1,4%, una percentuale non irrilevante in considerazione del già citato shock, e pur tuttavia inferiore a quella registrata nello stesso anno dagli Stati Uniti e dalla media dell’eurozona (per non citare, naturalmente, il 6,9% della Cina).
Per colmare il già ampio divario di ricchezza coi Paesi occidentali, la Russia dovrebbe crescere più rapidamente di questi. Ciò non sta avvenendo, ed è probabile che non accadrà nemmeno nel prossimo futuro. La stagnazione, infatti, è una condizione avversa insita nel sistema della Putinomics, e difficilmente lascerà il passo ad una crescita più sostanziosa senza intaccare (o addirittura stravolgere) i consolidati equilibri politici.
Sebbene l’economia russa abbia dimostrato di saper reggere (e reagire, dati gli ultimi indicatori) allo shock del 2014-15, le prospettive per i prossimi anni non sono rosee.
Cupcake Ipsum, 2015
Ma cosa prevede la Putinomics?
Come spiega Chris Miller in questa analisi pubblicata su Foreign Policy, sono tre gli elementi che rendono peculiare il sistema economico russo.
In primo luogo, il mantenimento della stabilità macroeconomica, tramite bassi deficit di bilancio, debito e inflazione anche a spese della crescita del PIL. In secondo luogo, l’uso del welfare state per incoraggiare la lealtà di gruppi socialmente rilevanti – come la vasta schiera dei pensionati – a discapito degli investimenti sull’innovazione. Da ultimo, l’apertura al libero mercato limitata ai campi non strategici, in cambio del controllo statale di quei settori cruciali (come energia e informazione) dove business e politica convergono.
Con ogni probabilità Putin sa già bene che, perpetuando questo sistema, finirà per lasciare lo Stato stabile ma al tempo stesso stagnante. Tuttavia non ha molte alternative.
L’ex ministro delle finanze Aleksej Kudrin, un uomo rimasto parecchio influente dalle parti del Cremlino, vorrebbe liberalizzare maggiormente l’economia, limitando la quota di intervento statale e rafforzando la competitività del sistema. Ma per farlo, occorrono delle riforme strutturali a cui la Russia non sarebbe ancora pronta. Dei forti cambiamenti economici potrebbero infatti alienare dei gruppi di sostegno chiave e far perdere al Cremlino il controllo politico del Paese.
Il maggior supporto al potere di Putin proviene dai servizi di sicurezza, dal complesso militare e industriale, dalle compagnie di stato che controllano due terzi dell’economia russa. Ridurre l’entità dei fondi ad essi destinati (o persino, in una certa misura, diminuire il correlato impegno in Ucraina e in Siria) potrebbe tagliare le gambe al sostegno (anche elettorale) di Putin. Senza contare la lealtà dei governatori locali, a volte letteralmente acquistata in cambio della distribuzione di finanziamenti statali o di altri privilegi. Inoltre, lasciare spazio alla concorrenza delle imprese private potrebbe danneggiare le grandi compagnie di stato (del cui supporto si nutre Putin); persino la lotta alla corruzione potrebbe mettere i bastoni tra le ruote ad alcuni dei più grossi sponsor del presidente.
Insomma, un clima ostile agli investimenti economici (anche stranieri), che nel lungo periodo potrebbe frenare in modo decisivo la crescita e l’innovazione.
Certo, non tutti i mali vengono per nuocere: come accennavamo sopra, la Putinomics e le decisioni della Banca centrale russa hanno permesso al Paese di tenere la disoccupazione stabile (al 5-6%), il debito pubblico ai minimi (sotto il 15%) e di ridurre persino l’inflazione dal 15% del difficile 2015 ai minimi storici del 2% attuale. La decisione di lasciar fluttuare il rublo per risparmiare le riserve monetarie, unita alla drastica riduzione della spesa pubblica, ha sicuramente costretto i russi a molti sacrifici ma al tempo stesso gli ha consentito di superare quasi indenni e soprattutto con una certa rapidità la terribile crisi degli ultimi anni.
Un successo non scontato, dato il generale pessimismo e la moltiplicazione degli onerosi impegni di Mosca in chiave internazionale, sia militari che diplomatici.
Resta da capire solo dove finisca la tanto invocata stabilità e dove cominci invece la stagnazione. Un quesito al quale forse solo gli anni dell’ultimo mandato di Putin sapranno dare una risposta.