Nelle ultime ore stiamo assistendo ad alcuni segnali distensivi tra Mosca e Washington. Si tratta di un fuoco di paglia o è un preludio a qualcosa di più sostanziale?
Innanzitutto il contesto: le relazioni bipolari oggi sono pessime, deteriorate allo stato degli ultimi anni della Guerra fredda, anzi a poco prima: forse si deve tornare al triennio di coesistenza (poco pacifica) tra Reagan e Brežnev (1980-82) per rintracciare un periodo così turbolento.
Erano gli anni del boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca per via del suo intervento in Afghanistan, e della risposta sovietica nei successivi giochi di Los Angeles. Qualcosa che ricorda abbastanza i Mondiali di calcio russi di quest’anno, di cui si sta sfiorando il boicottaggio (o le Olimpiadi di Soči, ricordate? Inaugurate tra le polemiche all’indomani degli scontri di Euromaidan… e la Crimea doveva ancora venire).
Sono così tanti i motivi formali di attrito, da chiedersi legittimamente come si possa tornare indietro.
Proviamo a farne una breve lista, non esaustiva: il caso Skripal’ e le espulsioni dei diplomatici, le sanzioni economiche, la mai risolta questione ucraina, i contatti militari nel Baltico, l’allargamento della NATO, la presunta ingerenza nelle elezioni americane, l’influenza in quelle europee, gli hacker a piede libero.
E poi c’è la Siria, che sulla carta poteva essere l’unico banco di prova per un’intesa che superasse le altre ostilità: un nemico comune, l’ISIS; la necessità di un coordinamento sul campo, la volontà di superare lo stallo della guerra civile. Tanti i presupposti per qualcosa di diverso nell’orizzonte diplomatico.
Così non è stato, e man mano che la Russia ha aumentato la sua influenza a Damasco, le potenze occidentali assenti hanno iniziato a mormorare sempre più forte. Fino a far credere a qualcuno che in Medio Oriente potesse conflagrare lo scontro finale tra Mosca e Washington.
Man mano che la Russia ha aumentato la sua influenza a Damasco, le potenze occidentali hanno iniziato a mormorare sempre più forte. Fino a far credere che in Medio Oriente potesse conflagrare lo scontro finale tra Mosca e Washington.
Cupcake Ipsum, 2015
Proprio la Siria, però, nei momenti più bui ha fatto intravedere qualche spiraglio.
Il raid ordinato da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna una settimana fa, e conclusosi nello spazio di poche ore, è stato con tutta probabilità comunicato al Cremlino prima della sua attuazione, forse già con lo scambio telefonico tra Macron e Putin di qualche ora prima.
Non solo, ma probabilmente gli obiettivi sono stati pure concordati con Mosca. Il tutto studiato in modo da non far perdere la faccia a nessuno: né agli occidentali intenzionati a dare un segnale forte, né ai russi garanti del regime di Assad e titolari de facto della sovranità sullo spazio aereo siriano, né infine ad Assad stesso, che si è affrettato a dimostrare l’efficacia delle sue difese anti-missili (o l’inefficacia della controparte, fate voi) prima ancora di condannare l’attacco.
Risultato: just one shot, con zero vittime ma tantissima, naturale attenzione mediatica al seguito.
Il resto è stato teatro della convenienza. La Russia ha convocato il Consiglio di Sicurezza come da copione, ma già dai toni si intuiva che la reazione non sarebbe stata dura (né durevole).
Ora che le acque si sono parzialmente calmate, arrivano alla stampa le prime indiscrezioni di un prossimo incontro fra Trump e Putin, da tenersi nella capitale americana. Anzi due, visto che il presidente russo ricambierà senz’altro la cortesia a Mosca. E il grigio Lavrov non è stato visto spesso così ottimista.
Naturalmente ciò non significa che i problemi si siano risolti, anzi. Restano tutti sul tavolo, e probabilmente qualcuno continuerà a soffiare sul fuoco.