“Rivoluzione di velluto”: salta subito all’occhio la definizione che Nikol Pashinyan, leader dell’opposizione armena, ha voluto dare agli eventi occorsi in questi giorni nel proprio Paese.
Salta all’occhio perché rimanda al regime change cecoslovacco, apice di un movimento trasversale che scosse l’intera Europa dell’est nell’autunno del 1989, in concomitanza con la caduta del Muro di Berlino.
A ben vedere, a dar consistenza ad un parallelo così azzardato (due Paesi e due contesti internazionali diversissimi) restano solo due elementi: il successo pacifico della rivolta di Erevan e la sua implicita sfida all’ordine di Mosca.
Relativamente al primo, bisogna dire che si tratta di un risultato ancora provvisorio, ma niente affatto scontato. Basti pensare al fatto che le rivolte contro il potere nelle ex repubbliche sovietiche difficilmente non sfociano nel sangue, e l’Armenia, Stato relativamente debole in eterna lotta coi propri vicini (Azerbaijan e Turchia su tutti), presenta più di un requisito per l’affermazione di altri epiloghi. Fino ad ora, non sembrerebbero esserci state infiltrazioni esterne: il pacifico andamento della rivolta sarebbe merito delle mosse dell’opposizione (oltre che del buonsenso di Serzh Sargsyan, il primo ministro nel mirino che ha ben presto deciso di dimettersi). Per il futuro, anche immediato, è difficile far previsioni.
Riguardo la sfida all’ordine di Mosca, è utile dare alcune coordinate prima di rischiare giudizi affrettati.
L’Armenia è una stabile alleata della Russia, unica tra le ex repubbliche sovietiche del Caucaso ad accettare l’invito di Mosca ad entrare nell’Unione Economica Eurasiatica, di cui è anzi tra i fondatori (e di cui proprio Sargsyan è stato fino ad ora presidente). Si badi bene, però: Erevan è un alleato geopolitico di Mosca, più che politico.
Cosa significa?
Significa che il legame tra i due Paesi trascende i loro regimi o le loro dinamiche politiche interne, ed ha quindi radici ben più profonde, sia a livello storico che in senso prettamente geografico.
L’Armenia è un alleato geopolitico di Mosca, più che politico
Cupcake Ipsum, 2015
Una precisazione necessaria, poiché a sua volta implica due importanti conseguenze.
La prima è che l’Armenia potrà cambiare premier, forse persino il proprio ordinamento interno, ma difficilmente cambierà il suo schieramento internazionale: storicamente antagonista di Ankara per i ben noti motivi (proprio in questi giorni si è celebrato l’anniversario del genocidio armeno), ostile all’Azerbaijan con il quale contende da due decenni la regione del Nagorno-Karabakh, Erevan resterà ancorata alla Russia perché quest’ultima è l’unica sua vera alleata nel tormentato Caucaso.
La seconda, postulato della prima, è evidente: se l’Armenia non rischia di cambiare campo, le preoccupazioni della Russia (di cui si è abbastanza parlato in questi giorni) sono solo relative. La Rivoluzione di Velluto di Erevan, per Mosca, è solo una delle tante “rivoluzioni colorate”: un mal gradito tentativo (eterodiretto, si pensa ovviamente al Cremlino) di sovvertire l’ordine costituito. Ma i russi sanno bene che gli armeni continueranno ad aver bisogno di loro, e che non è plausibile un epilogo “georgiano” o peggio ancora “ucraino”. Il rischio, semmai, sarebbe quello di un contagio “democratico”: un’ipotesi comunque remota, a poche settimane dal plebiscito per Putin.
Dunque, per un alleato geopolitico come l’Armenia, le preoccupazioni della Russia non possono essere che “politiche”. Le rivolte contro il sistema non sono mai una buona notizia per il Cremlino, ovunque esse avvengano. Ma Putin, come dimostrano certe Primavere Arabe, sarà pronto ad adeguarsi se si troverà dinnanzi ad interlocutori dialoganti. E le notizie dell’ultim’ora sembrano confermare questa strada.