Diciannove chilometri. Questa la larghezza dello stretto di Kerč’, ovvero la distanza tra la Crimea e la regione di Krasnodar, fino al 2014 ultimo avamposto occidentale della Federazione russa sul Mar Nero.
Una distanza che è stata coperta dal ponte “Krymskij most”, inaugurato il 15 maggio, con sei mesi di anticipo rispetto alle previsioni.
Non è un’opera come le altre.
Dal punto di vista ingegneristico, è stata un’impresa molto complessa. Basti pensare che il ponte, da oggi ufficialmente il più lungo d’Europa, è stato più volte progettato durante il XX secolo ma mai portato a termine, per difficoltà tecniche che né gli ideatori zaristi, né quelli sovietici sono riusciti a risolvere. Persino Speer, il famoso architetto di Hitler, dovette arrendersi prima di vedere il suo progetto completato (iniziato nei primi mesi del 1943, servì solo a favorire le operazioni di ritirata dopo Stalingrado, e i suoi resti furono infine distrutti dalla stessa Wehrmacht). Progetti di costruzione del ponte sono stati avanzati anche dopo l’indipendenza dell’Ucraina, ma gli accordi stipulati tra Janukovyč e Medvedev sono stati vanificati dai successivi e ben noti eventi occorsi in Crimea.
Eppure, proprio l’annessione della penisola alla Federazione russa ha accelerato la costruzione del ponte, tanto che i lavori sono cominciati già l’anno successivo, nel 2015. Il Krymskij most è stato infatti fortemente voluto da Putin, per svariate e importanti ragioni.
Prima di tutto quella logistica: dover attraversare le acque impetuose dello Stretto di Kerč’, o peggio ancora il territorio ucraino, è stato fino ad oggi un ostacolo molto serio all’integrazione (specie economica) della Crimea con la Russia.
Correlata alla precedente, la ragione strategica. Pur in assenza di una concreta minaccia di intervento internazionale, la Crimea resta oggetto di una disputa irrisolta con l’Ucraina, oltre che di sanzioni ancora attuate dagli Stati Uniti e da molti Paesi europei. A fronte di qualsiasi eventualità, la possibilità di un rapido ed efficace rifornimento militare della penisola resta essenziale per Mosca, tanto più se il ponte serve pure a tagliare fuori dal Mar Nero importanti città portuali ucraine, come Berdiansk (e Mariupol’, se dovesse tornare mai sotto la sovranità di Kiev al posto dell’attuale repubblica di Donetsk).
Infine, naturalmente, vi è la dimensione simbolica e politica. In Russia i ponti rivestono una tradizionale importanza per il potere, anche in virtù della loro utilità nel collegare regioni altrimenti separate. Non a caso Putin ha voluto presenziare all’inaugurazione del Krymskij most il 15 maggio, guidando personalmente un camion per tutti i diciannove chilometri del ponte. Il presidente russo ha voluto sfidare non solo l’Ucraina ma tutto l’Occidente, reo peraltro di aver sanzionato anche le imprese (prima fra tutte l’S.G.M. Group di Rotenberg, oligarca amico di Putin, in prima fila negli appalti) che hanno agevolato la costruzione dell’opera.
Putin ha guidato personalmente un camion per tutti i diciannove chilometri del ponte.
La valenza simbolica dell’evento si può leggere anche nella sua data. Inaugurando il ponte a cavallo tra la sua rielezione (già stabilita per l’anniversario dell’annessione della Crimea) e il fischio di inizio dei Mondiali di calcio, Putin ha voluto lanciare un messaggio al mondo: la Russia va dritta per la sua strada, benché quest’ultima sia stata costruita su acque turbolente; nessun timore di boicottaggi o di ulteriori sanzioni cambierà il corso delle cose. Naturalmente, va da sé che certe mosse non faciliteranno la ripresa del dialogo con l’Occidente.
L’Ucraina, come preannunciato, ha fortemente protestato contro la costruzione del ponte. Anche se c’è chi, provocatoriamente (o illusoriamente) crede che sia un’opera che potrebbe tornare utile in un futuribile ritorno della Crimea sotto l’autorità di Kiev, resta un fatto molto più immediato: l’apertura del Krymskij most potrebbe danneggiare fortemente l’attività commerciale e portuale del sud-est dell’Ucraina. E allontanare ancora una volta la pace dalla regione.