La settimana scorsa è stata ufficializzata da Medvedev la nuova squadra di governo che guiderà la Russia per i prossimi anni.
Già da una prima occhiata alla lista, appare subito evidente la volontà di preservare gli assetti di potere: la maggior parte dei più importanti ministri è stata mantenuta. Tra di essi, Lavrov (Esteri), Šojgu (Difesa), Kolokol’cev (Interni), Manturov (Economia e Commercio), Oreškin (Sviluppo economico), Topilin (Lavoro), Novak (Politiche energetiche), Konovalov (Giustizia); il ministro delle Finanze Siluanov è stato promosso vicepremier. Le sole novità riguardano Ziničev e Patrušev, nominati rispettivamente ministro per gli Stati d’Emergenza e ministro per le Politiche Agricole.
Le possibilità di attuare le riforme strutturali tanto attese (innovazione economica, welfare, sanità, istruzione) non è automaticamente disattesa dalla riconferma di questa configurazione, però certamente si allontana. Nemmeno nella strategia internazionale della Russia dovrebbero esserci sorprese: il duo Lavrov-Šojgu continuerà a lavorare nonostante il primo dei due abbia già manifestato qualche segnale di stanchezza.
Si può pensare che queste scelte rappresentino un premio per il buongoverno degli anni precedenti. Ciò tuttavia è solo parzialmente vero: basti pensare al caso dello stesso Medvedev .
La possibilità di attuare le riforme strutturali tanto attese non è automaticamente disattesa dalla riconferma di questa configurazione, però certamente si allontana.
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Parafulmine istituzionale del malcontento popolare, Medvedev ha avuto un rapporto conflittuale con i deputati della Duma di tutti i partiti, compreso il proprio, e in alcune fasi (in particolare all’inizio del suo mandato del 2012) ha dovuto pure subire i fendenti di Putin, ai quali peraltro non ha mai risposto. L’isolamento a cui è andato sempre più incontro, coinciso con l’allontanamento o l’arresto dei suoi più stretti sostenitori (primo fra tutti Anton Ivanov, Presidente della Corte Suprema di Arbitrato fino al 2013, anno della sua soppressione) ha sicuramente ridotto, anche se non annullato, le possibilità di un suo avanzamento di carriera.
Conosciuto nel mondo per il suo spirito moderatamente innovatore, almeno per quel che ha potuto mostrare durante la sua breve presidenza (2008-2012), Medvedev continua ad essere incastrato in un ruolo difficile, privo di popolarità così come dell’autonomia necessaria per imprimere il proprio carattere. Soggetto ai veti presidenziali così come a quelli delle grandi compagnie di stato, che ne hanno spesso influenzato l’azione politica e legislativa, il premierato non è tra i posti più ambiti in Russia. Il CEO della Rostec Sergej Čemezov, di fronte alla prospettiva di prendere il posto di Medvedev, alla fine del 2017 avrebbe esclamato “Dio non voglia!”.
Secondo un’analisi del Carnegie Center di Mosca, l’insistenza di Putin nel mantenerlo in questa posizione non deriverebbe tanto dalla stima nei suoi confronti, bensì dal timore che al di fuori della sua cerchia Medvedev possa rappresentare un pericolo. Una possibilità oggi remota anche per via della generale ritirata dei liberali in Russia, ma la previdenza del presidente è proverbiale: il suo quarto ed ultimo mandato è troppo delicato per poter produrre esperimenti. Un governo rodato, guidato dal morbido (finché leale) Medvedev, è la migliore tattica per disinnescare sorprese interne.