Il match di Helsinki ha avuto un vincitore abbastanza evidente, Putin.
Lo riconoscono un po’ tutti i media internazionali, dai più vicini ai più ostili verso il presidente russo.
A catalizzare l’attenzione mediatica, specie quella americana, è stato però l’atteggiamento ambiguo e incoerente di Trump, che è riuscito ancora una volta a rendersi protagonista del summit. Il tycoon si è infatti esibito in una performance di estrema accondiscendenza verso Putin, almeno in apparenza. Un atteggiamento subito stroncato da tutti i media e opinionisti americani, duri come non mai verso il loro presidente.
Sull’onda di tale sdegno, Trump ha dovuto fare un parziale dietrofront il giorno successivo, sostenendo di essersi confuso nella formulazione di alcune frasi decisive, come quella relativa alla sua fiducia verso i servizi segreti americani (una domanda trabocchetto, bisogna rilevare… sarebbe stato difficile per il presidente americano accusare il suo omologo di essere un bugiardo, dinnanzi al suo cospetto).
Presi com’erano dagli eventi, gli osservatori hanno dato poco spazio alla sostanza del summit, e nello specifico alle trattative sul tavolo oggetto di un incontro così caldo. L’impressione è che un po’ tutti abbiano dato per scontato che Trump si sia fatto completamente abbindolare o soggiogare dal carisma e dall’esperienza di Putin.
In realtà, com’è ovvio, le cose non stanno esattamente così.
L’impressione è che un po’ tutti abbiano dato per scontato che Trump si sia fatto completamente abbindolare o soggiogare dal carisma e dall’esperienza di Putin
Cupcake Ipsum, 2015
Donald è andato a Helsinki con almeno due obiettivi: il primo, quello di ottenere un riconoscimento diplomatico delle sue trattative con la Corea del Nord; il secondo, più importante, di allontanare la Russia dall’Iran, sia per quanto riguarda il nuclear deal, sia per la proiezione siriana del Paese degli ayatollah. Inoltre il presidente americano ha sfruttato l’incontro per provare a distanziare Mosca e Berlino, la cui vicinanza (anche solo energetica) è vista dagli americani come fumo negli occhi.
In cambio Trump avrebbe offerto – in evidente disaccordo coi suoi apparati – la sospensione delle sanzioni e un allentamento delle pressioni occidentali sulla questione ucraina. Offerte certamente gradite da Putin, ma con ogni evidenza irrealistiche, in quanto ben fuori dalla portata politica della Casa Bianca.
Da parte russa, l’approccio pragmatico del Cremlino consente di vedere tutto con maggior distacco. Nessun particolare entusiasmo è trapelato in risposta alle parole di Trump, di cui anzi si riconoscono tutti i limiti. Se è vero però che il presidente americano non può fare molto, nel suo velleitario avvicinamento a Putin, è anche vero che nelle attuali condizioni questo resta per Mosca il migliore scenario possibile, da tenere quindi stretto. In più la Russia ha registrato l’ennesimo successo di immagine con questo vertice, enfatizzato dalla figura mediocre di Trump (ed è ormai noto quanto l’immagine sia tenuta in considerazione e curata, dalle parti del Cremlino).
Ciò al di là degli scarsi passi avanti compiuti nella cooperazione effettiva tra le due potenze, specie nel campo militare. Secondo alcune fonti, a breve potrebbe esserci un incontro ministeriale tra i massimi responsabili della Difesa russo (Šojgu) e statunitense (Mattis). Certamente un bel passo avanti, ma insufficiente finché le traiettorie geopolitiche resteranno le stesse.
L’incontro di Helsinki resterà negli annali più per le gaffes di Trump che per un’effettiva svolta nelle relazioni bilaterali. Sia l’immagine dell’incontro che la sua sostanza hanno sorriso a Putin, anche se in misura differente e sproporzionata. Ma in tempi magri come questi, nei quali il successo mediatico del Mondiale non corrisponde ad una rottura dell’isolamento internazionale, Mosca dovrà accontentarsi.