Si è chiusa con successo, sabato scorso, l’imponente esercitazione navale che Mosca ha voluto condurre nelle acque del Mediterraneo.
Le operazioni, le più vaste almeno dall’inizio dell’intervento russo in Siria (2015), hanno visto impegnate le Flotte russe del Nord, del Baltico, del Mar Nero e persino del Caspio, oltre agli aerei da trasporto. In tutto hanno partecipato oltre 25 navi, guidate dall’incrociatore lanciamissili “Maresciallo Ustinov”, e 30 velivoli (tra questi i bombardieri strategici T-160, e i caccia multiruolo Su-33 e Su-30).
L’evento non ha rappresentato una novità, di per sé. Il Mediterraneo è da sempre teatro di esercitazioni, prove di forza e pattugliamenti da parte della marina russa. Senza scomodare le prime azioni risalenti ai tempi di Caterina la Grande, è il caso di ricordare che in epoca sovietica, una volta definito il regime degli Stretti turchi (Convenzione di Montreux, 1936), la presenza navale di Mosca si è fatta sentire con una certa costanza e soprattutto grazie al fondamentale appoggio logistico da parte di alcuni Paesi rivieraschi, Egitto e Siria in primis.
La “Quinta Squadra” (così veniva chiamata la flotta sovietica del Mediterraneo), però, è stata tra le prime a pagare il prezzo della dissoluzione dell’URSS, venendo sciolta ufficialmente già nel 1991. Non è stata più ricostituita né nelle unità né negli scopi strategici, nonostante ripetuti proclami. Ne è derivata, peraltro, una sensibile lacuna tattica e logistica all’alba dell’intervento russo in Siria.
La diplomazia russa, nel frattempo, non è rimasta a guardare. Si è anzi rimessa in moto per ricreare quella rete di relazioni (o quanto meno di opportunità) che tanta importanza avevano avuto, durante la Guerra fredda, per una presenza significativa nel Mediterraneo orientale. La logistica, nel mondo navale, è fondamentale, e la stessa proiezione strategica di Mosca in Medio Oriente avrebbe potuto restare compromessa in caso di un’escalation di tensioni con la Turchia (gli Stretti limitano fortemente l’operatività della flotta del Mar Nero). La base di Tartus in Siria è tornata dunque a rivestire un’importanza essenziale, ma con essa sono stati rispolverati i propositi di “intrusione” in altri Paesi: nel giro di pochi anni si è parlato di nuove basi russe (o di affitti e concessioni alle unità navali di Mosca) in Egitto, Libia (Cirenaica), Cipro, Libano e persino Grecia. Un mosaico di appoggi che difficilmente si costituirà mai nella sua interezza, ma che serve a dare la cifra dell’impegno diplomatico e militare russo nell’area, contraltare di un declino ormai evidente dell’influenza politica occidentale.
La stessa proiezione strategica di Mosca in Medio Oriente avrebbe potuto restare compromessa in caso di un’escalation di tensioni con la Turchia
Cupcake Ipsum, 2015
Questo è il contesto strategico generale in cui si è programmata ed effettuata l’esercitazione della settimana scorsa. A completare il quadro, alcune circostanze contingenti. Due in particolare: gli ultimi colloqui del formato Astana per la Siria, avvenuti a Tabriz una settimana fa e relativi alla campagna di Idlib, e gli sforzi paralleli per un’altra esercitazione, Vostok-18, la più grande della storia russa, di cui Mattia Baldoni ci ha appena parlato qui.
Com’è stato evidenziato da più parti, i colloqui di venerdì scorso di Tabriz non sono stati di certo i più proficui da quando è nato il format di Astana, nel 2016. Sono venute alla luce (e non poteva essere altrimenti, ormai) le contraddizioni di un gruppo formato da Paesi con obiettivi diversi e spesso pure contrastanti. L’esercitazione nel Mediterraneo serve anche a dare un segnale alla Turchia (in questo senso geopoliticamente circondata dalla Russia) che ancora una volta dovrà fare buon viso a cattivo gioco; dall’altra parte l’Iran, solo ad occhi inesperti distante dal mare nostrum, nelle intenzioni del Cremlino dovrebbe saper cogliere il messaggio russo. Ovvero: va bene restare in Siria, magari il più possibile distanti dal confine israeliano del Golan, ma non provate a minacciare le nostre posizioni energetiche (e politiche) con una proiezione sul Mediterraneo che non vi compete. Segnali giunti a destinazione? Staremo a vedere.
Naturalmente, ancor più che agli amici/nemici di Astana, le attività russe nel Mediterraneo orientale sono rivolte all’Occidente, che sta mobilitando la propria opposizione mediatica (e politica?) alla nuova offensiva dei lealisti su Idlib. Una sorta di deterrenza dunque,dato che le operazioni navali russe hanno fatto perno sulla base di Tartus, non troppo distante dalle ultime roccaforti dei ribelli siriani. Qui, però, è da registrare anche un corto circuito comunicativo tra le stanze del potere di Mosca: nel giro di poche ore, le iniziali dichiarazioni del portavoce del Cremlino Peskov in sostegno di un legame tra le operazioni navali e la campagna di Idlib, sono state smentite (pur se in maniera blanda) dal viceministro degli esteri Bogdanov. Risulta più credibile, a nostro avviso, la prima versione.
Intanto, come dicevamo, le attività militari russe proseguono su più fronti e vedono riavvicinare Mosca a Pechino, un altro attore solo in apparenza distante dai nostri mari caldi. Le operazioni congiunte di Vostok-18 sono state programmate per questi giorni e, benché la loro sovrapposizione con le manovre mediterranee sia a conti fatti una coincidenza, il Cremlino sfrutterà l’occasione per rafforzare la sua narrativa. Ovvero, quella di una potenza non regionale e non soggetta alla vecchia regola dell’overstretching, tale per cui un soggetto dalle risorse limitate (la Russia sarebbe un caso emblematico) non potrebbe giocare su troppi fronti senza pagarne le conseguenze. Nonostante le continue e formali rassicurazioni sui propri intenti difensivi, Mosca tenta di costruire e far passare questa immagine di sé. E finora, visti i continui allarmi in Occidente, sembra esserci riuscita.