Un inizio di settimana decisamente intenso e ricco di avvenimenti cruciali per l’area mediorientale. Da sette anni a questa parte, la Siria e il suo destino si confermano protagonisti. Dopo l’infruttuoso incontro di Teheran, tenutosi il 7 settembre scorso tra Iran, Russia e Turchia per definire il destino di Idlib, sembrava che lo scontro militare fosse rimasto l’unica strada percorribile per risolvere questa complicata situazione. Salvacondotto per le formazioni ribelli (tra cui gli stessi Turcomanni che catturarono i primi piloti russi nel novembre 2015) e, secondo alcune indiscrezioni, la possibilità del rientro dei foreign fighters nei paesi d’origine; queste alcune delle condizioni poste allora da Erdogan, forse consapevole della loro infattibilità. Particolarmente delusi Putin e Rouhani, apparentemente decisi a chiudere i giochi contro i ribelli, il tavolo di Teheran ha lasciato l’amaro sapore di un fallimento preannunciato: troppo distanti le idee e i progetti su Idlib, troppo determinate le strategie russo-iraniane, troppo debole la “foglia di fico” umanitaria ostentata da Erdogan.
Nei giorni successivi si sono susseguite massicce mobilitazioni terrestri di truppe siriane e turche e qualche raid aereo russo, ma senza che nessuna delle parti sia arrivata mai allo scontro. Il 17 settembre, a seguito dei colloqui bilaterali a Soči, Vladimir Putin e Recep Erdogan trovano un accordo che sembrava insperato: nella regione di Idlib non ci sarà alcuno scontro. Con un memorandum firmato dai Ministri della Difesa Šojgu e Akar, viene annunciata la creazione di una zona “demilitarizzata”, di “de-escalation”, larga 15-20 km, da definire entro il 15 ottobre. In quest’area, tutti i gruppi ribelli e radicali, compresa Al-Nusra, dovranno ritirarsi e le forze russe e turche monitoreranno congiuntamente le operazioni. La crisi militare viene scongiurata e tutte le parti, Siria compresa, sembrano apprezzare lo sforzo. Viene prevista così una “zona-cuscinetto” al confine con la Turchia, una soluzione che lascerebbe spazio a varie interpretazioni: la più diffusa sostiene una sorta di “cipriotizzazione” della regione, ovvero la creazione di una sorta di protettorato turco lungo il confine comune con Damasco, similmente all’occupazione di Cipro Nord dal 1976. In questo modo, Mosca potrebbe “salvare capra e cavoli”: eviterebbe di scontrarsi e rompere brutalmente con Ankara; garantirebbe la simbolica riconquista di Idlib a Bashar al-Assad [molto interessanti gli articoli in merito di Eugenio Dacrema e Hay Eytan Cohen Yanarocak].
A Soči sono le 19.40 del 17 settembre 2018; sulla Siria settentrionale sembra calare la distensione.
La sera stessa, poche ore dopo l’incontro tra Putin ed Erdogan, numerosi missili vengono lanciati verso la costa mediterranea siriana, nella zona di Tartus (sede dell’unico porto della Marina militare russa nel Mediterraneo), di Homs e di Latakia (nei cui pressi si trova l’aeroporto militare di Hmeimim, base di partenza dell’aviazione russa impegnata in Siria). I vettori sembrano provenire dal mare e la loro origine, almeno inizialmente, rimane ignota. Le difese contraeree siriane riescono ad intercettare alcuni dei razzi, scontando però le proprie carenze tecnologiche-militari. Mentre si rincorrono i sospetti e le accuse (principalmente verso gli USA, la Francia ed Israele), alle 1.48 ora di Mosca, il Ministero della Difesa russa comunica l’avvenuto abbattimento di un Il’jušin Il-20, con a bordo 14 militari. Il velivolo da ricognizione stava sorvolando il Mediterraneo, per poi rientrare nella base di Hmeimim, ma è improvvisamente scomparso dai radar durante l’attacco missilistico su Latakia. Le autorità russe subito addossano la colpa alla fregata francese “Auvergne”. Poche ore più tardi, al CNN diffonde la notizia che l’aereo russo, secondo fonti militari USA, sarebbe stato abbattuto dal fuoco amico siriano. Inizialmente la diffidenza russa è massima, ma la mattina del 18 settembre, il Generale Maggiore Igor’ Konašenkov dichiara che l’Il-20 è stato colpito dalle batterie missilistiche S-200 in dotazione alla Siria.
Constatato questo errore, Mosca aggiunge pesanti accuse contro Israele, sulla cui aviazione ricadrebbe la grave responsabilità di quanto accaduto. Secondo le autorità russe, l’IDF (Israeli Defence Force) avrebbe avvisato Mosca con colpevole ritardo, con solo un minuto di anticipo, senza lasciare tempo all’aereo russo di spostarsi dall’area. Inoltre, le manovre dei caccia israeliani F-16 avrebbero fatto sì che il velivolo russo Il-20, più grande e più lento, abbia fatto loro da “schermo”, ingannando i radar siriani [qui il video con le dichiarazioni del Gen. Mag. Konašenkov]. Secca la conclusione del discorso: “La Federazione Russa si riserva di rispondere nei tempi e nei modi che preferisce”.
In mattinata, l’ambasciatore israeliano in Russia è stato convocato d’urgenza a Mosca, mentre Tel Aviv ha riconosciuto la paternità degli attacchi contro postazioni ed arsenali iraniani o di Hezbollah. In merito all’abbattimento dell’Il-20, Israele ha rigettato ogni accusa. Nel pomeriggio, Vladimir Putin ha smorzato i toni accusatori, giudicando quanto accaduto come “la somma di tragiche coincidenze“. Secondo il Presidente russo, ad Israele non può essere imputata nessuna colpa diretta; il caso sarebbe totalmente diverso dai Su-24 abbattuti dalla Turchia nel 2015. Come visto, l’esasperazione ed il sospetto si alterna velocemente con toni più pacati e moderati. La situazione è estremamente delicata ed in continua evoluzione, molte delle dichiarazioni e delle posizioni assunte in queste ore devono essere considerate con estrema cautela. Quanto avvenuto, però, ci può far ragionare sulle relazioni russo-israeliane e la loro collocazione nello scenario mediorientale.
Israele in passato ha già attaccato siti, depositi o obiettivi militari iraniani (o riconducibili a Teheran) in Siria; Mosca non è mai intervenuta, se non con qualche contestazione puramente formale, lasciando lo scontro alle parti coinvolte. Mantenendo un ruolo super partes, la Russia è riuscita a coltivare rapporti costruttivi e vantaggiosi con l’Iran, ma allo stesso tempo si è potuto avvicinare ad Israele. Non dimentichiamo la presenza a Mosca del presidente israeliano Netanyahu, sul palco d’onore per la Parata della Vittoria del 9 maggio e i colloqui bilaterali con Putin. Da quegli incontri scaturirono le richieste per il ritiro delle truppe straniere in Siria, che hanno suscitato diversi malumori nella Repubblica Islamica. Per contrappeso, con molto pragmatismo e realismo, il Cremlino spinse prontamente per importanti concessioni e aperture doganali tra Teheran e l’Unione Euroasiatica.
Nell’agosto 2018, Mosca ha esercitato pressioni sul governo iraniano per allontanare le milizie sciite dalle alture del Golan e tranquillizzare Israele; pochi giorni dopo, in Kazakhstan, Russia ed Iran (insieme agli altri Paesi rivieraschi) hanno siglato l’Accordo sullo Status Giuridico del Mar Caspio (dopo 20 anni di trattative e discussioni), tramite il quale gli Stati coinvolti riconoscono i reciproci interessi nella regione caspica.
Mosca ha quindi cercato di mantenersi equidistante nella rivalità israelo-iraniana, talvolta sacrificando alcune opportunità di rafforzare la cooperazione con Iran in chiave anti-occidentale, altre volte costruendo nuovi dialoghi, smarcandosi dalle radicali inimicizie di Teheran in Medio Oriente (Israele e Arabia Saudita in primis). In attesa dell’evoluzione degli eventi in un contesto così intricato, il Cremlino dovrà attentamente ripensare il proprio rapporto con Tel Aviv e meditare cautamente su quali azioni intraprendere, soppesando vantaggi e sacrifici. Il repentino passaggio da un approccio inquisitorio a quello distensivo di Putin potrebbe essere molto indicativo.