La Russofobia nei Baltici
Poco più di un anno fa, Il 23 giugno del 2017, a Vilnius, capitale della Lituania, con una celebrazione ufficiale, si festeggiava l’indipendenza (piuttosto breve) del Paese dall’Unione Sovietica nel 1943, in seguito all’occupazione dei Baltici da parte delle SS tedesche avvenuta nel 1941. Ebbene, 75 anni dopo, più di 12 poster raffiguranti le atrocità commesse dai Bolscevichi, venivano appesi in giro per la capitale, il tutto contornato da musica suonata dall’orchestra dell’esercito, mentre candele e fiori si accumulavano vicino al monumento al genocidio sovietico, in un’atmosfera spumeggiante e forse per questo anche un po’ sconveniente, se si considerano le circa 200 000 vittime dell’Olocausto in Lituania a seguito del collaborazionismo con i tedeschi.
L’Olocausto in Lituania è quello più impressionante fra quelli avvenuti nei Baltici, poiché maggiore era la percentuale di ebrei che vivevano nel Paese, ma anche in Estonia e in Lettonia più del 90% della popolazione ebrea residente ha trovato la morte nei campi di concentramento istituiti dai loro stessi connazionali.
Nei Baltici, il processo di transizione verso un’economia liberale, cominciato nel 1991, è stata anche una dichiarazione di indipendenza che ha sancito la consolidazione di tre Stati nazione, attraverso un processo di de – nazionalizzazione dai 70 anni di dominio sovietico. La prima dichiarazione di indipendenza, al dire il vero, è avvenuta dopo la caduta dell’Impero zarista in seguito alla Rivoluzione di ottobre, nel 1917. Indipendenza che è durata solamente un ventennio, perché nel 1940 le truppe sovietiche invadono i tre Stati dando esecuzione a quanto previsto dal patto Molotov – Ribbentrop. Da quel momento prende forma una forte resistenza anti – Sovietica, tale da accogliere le truppe naziste come dei liberatori al momento dell’occupazione dei Baltici con l’Operazione Barbarossa. Gran parte della popolazione dei Baltici mostra un’alacre sostegno all’opera di sterminio delle SS e contribuisce alla cattura e allo sterminio di migliaia di ebrei.
Dal 1944, i tre Stati tornano nuovamente sotto il dominio sovietico, periodo in cui avviene quello che si può definire una colonizzazione dell’economia locale: pianificazione e collettivizzazione delle terre e nazionalizzazione delle fabbriche sotto stretto controllo del Gosplan, che ha il compito di assegnare posizioni strategiche ai membri della Nomenklatura russa. Le risorse locali vengono lavorate nelle imprese nazionalizzate ed esportate in territorio russo e migliaia di estoni, lituani e lettoni vengono deportati nei campi di lavoro in Siberia. Così l’Unione Sovietica riconsolida il controllo sulle tre Repubbliche del Mar Baltico, esportando un modello sovietico che lascerà per sempre nella memoria di queste popolazioni il ricordo di un’umiliante depredazione e la voglia di rivendicazione.
A partire dal 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica, nei Baltici comincia il processo di de – nazionalizzazione delle fabbriche e costruzione di un nuovo Stato da zero. La denuncia e la distruzione di qualsiasi retaggio sovietico diventano la macchina motrice di un processo di state – building. Da un punto di vista economico, il settore pubblico viene completamente smantellato attraverso le privatizzazioni di massa che seguono una terapia shock, che non solo esclude i russi dal tessuto economico e sociale, ma mette in ginocchio le stesse generazioni meno giovani della popolazione locale, che difficilmente si reinseriscono in una realtà stravolta in cui persino le pensioni vengono tagliate. Il trattamento d’urto ha l’obiettivo di restituire al mondo occidentale un’immagine emancipata dei Baltici, con la speranza che questi vengano rapidamente inseriti negli organismi internazionali occidentali come l’Unione Europea e la Nato.
A partire dal 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica, nei Baltici comincia il processo di de – nazionalizzazione delle fabbriche e costruzione di un nuovo Stato da zero. La denuncia e la distruzione di qualsiasi retaggio sovietico diventano la macchina motrice di un processo di state – building.
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Il piano di riconversione della società baltica prosegue anche nel contesto puramente sociale. I russi vengono esclusi con studiati meccanismi burocratici: viene reso obbligatorio un test di lingua locale in cui è necessario ottenere un punteggio attestante la madre lingua, praticamente un’impresa impossibile per i russofoni che da decenni risiedono nel territorio senza aver mai avuto l’esigenza di parlare la lingua locale. Al test di lingua viene affiancato quello di cultura generale ed entrambi diventano condizione necessaria per ottenere la cittadinanza locale, pena l’esclusione sociale e lavorativa. Alcune testimonianze su blog indipendenti raccontano di domande appositamente mirate a far fallire il test, come per esempio indicare il numero di pesci in un determinato fiume. Che un aneddoto del genere sia vero o che si tratti di mera esagerazione, è irrilevante. Ciò che importa è che è davvero esistito un contesto più ampio in cui storie del genere diventano credibili. In Estonia, ad esempio, viene ingegnata anche una terza via, quella del passaporto grigio: i Russi possono scegliere di tenere il passaporto russo, ma ciò vuol dire scegliere tutto il pacchetto completo, vale a dire anche l’esclusione sociale. In alternativa, nell’iter (dagli esiti incerti) di ottenimento della cittadinanza locale, si può rinunciare a quello russo in cambio di un passaporto grigio, sinonimo di status di apolide. A voi le conclusioni.
Ad oggi i 70 anni di dominazione sovietica costituiscono un trauma indiretto per le nuove generazioni, che non hanno vissuto la dominazione sovietica sulla propria pelle. Rimane una limitata esperienza tramandata oralmente o con qualche fotografia o scritto che ne conservano la testimonianza. La discriminazione si è attenuata e non ci sono episodi estremi di razzismo paragonabili ad una condizione di apartheid. In ogni caso, capita che alcuni episodi minori tradiscono il persistere di alcune bias nella quotidianità. Pertanto, ad oggi è probabile che se si rivolge una richiesta in russo ad un cittadino locale, questo si dimostri propenso ad ascoltare e offrire il suo aiuto, mentre i commenti più apertamente russofobi, con i quali si tende ad attribuire la colpa di ogni male ai russi, vengono riservati a contesti informali e possono sfuggire tra le mura del salotto di casa o in locale in cui ci si riunisce a bere qualcosa.
In ogni caso, proprio per l’esigenza di avvicinarsi all’Unione Europea i governi dei Baltici hanno compiuto le dovute riforme affinché le persone senza cittadinanza venissero reintegrate. Secondo i dati pubblicati da uno studio dall’Istituto di German and Slavic Studies, ad oggi il numero delle persone intrappolate nel limbo sociale è diminuito drasticamente in Lituania (0,3%), un po’ meno in Lettonia e in Estonia (rispettivamente 13 e 18%). Inoltre solo la Lituania ha introdotto il criterio dello jus soli. C’è anche da dire che quest’ultima si è sempre distinta dagli altri due Stati per una tolleranza maggiore, spiegabile con un il numero maggiore di cittadini lituani che ha contribuito a mantenere bassa la percentuale di russi sul territorio e che ha quindi permesso al Paese di resistere meglio alla “colonizzazione” sovietica. Anche la mancanza di un partito appositamente pro – Russo in Lituania la dice lunga sull’integrazione dei russi nella società, che non percepiscono sé stessi come una minoranza che necessita di una rappresentanza ad hoc in Parlamento. Viceversa, in Lettonia, il Partito Centrale dell’Armonia, che dà voce alla minoranza russa, ha riscosso un grande successo nelle parlamentari del 2011. In Estonia c’è l’equivalente partito nazionale russo, nato nel 1991, oggi incorporato in quello socialista.
Perché allora proprio nel Paese che, secondo i dati, si presenta come il più tollerante e inclusivo, il 23 giugno dell’anno scorso si è mostrata una così grande euforia nel festeggiare l’anniversario dell’arrivo dei nazisti? Per la verità, specialmente in Lituania, la russofobia non è scomparsa del tutto ma ha assunto i toni di una retorica negazionista.
Una storia che fa luce su questo aspetto della società lituana è quella della scrittrice Rūta Vanagaitė, intervistata dal New Yorker nel dicembre del 2017. La Vanagaitė, nativa della Lituania, ha pubblicato un libro, intitolato “La nostra gente”, diventato poi un best seller, che racconta di come le vecchie generazioni dei suoi concittadini abbiano partecipato attivamente alla macchina di uccisione nazista. Lei stessa è rimasta turbata quando ha scoperto che suo padre ha fornito delle liste di ebrei ai nazisti. Chissà, forse proprio questo evento l’ha spinta a far conoscere ai suoi concittadini una pagina di storia cancellata, offuscata dal sentimento russofobo in primo piano, una realtà di cui molti sono stati privati. Dal 2016 la Vanagaitė è vittima di insulti sia su internet, sia per la strada, dove è capitato che passanti l’abbiano avvicinata, chiamandola “puttana di Putin” e così via. L’ex capo di Stato lituano, Vytautas Landbergis, in un op-ed le avrebbe persino consigliato di “andare in una foresta, trovare un albero, pregare e condannare sé stessa”, parole che generano maggiore turbamento quando non vengono dalla strada ma bensì da un ex capo di Stato.
La storia di Rūta Vanagaitė, i festeggiamenti del 23 giugno a Vilnius e le testimonianze di pratiche quotidiane negli altri due Stati dei Baltici, prova di intolleranza nei confronti delle nuove generazioni di russi che fanno le spese di un’epoca passata, sono avvenimenti abbastanza recenti da poter a buon ragione riconoscere che ad oggi nei Baltici la russofobia è parte integrante di una retorica nazionalista che rischia di sotterrare un capitolo di storia in cui migliaia di ebrei hanno trovato la morte.
Le profonde ferite lasciate dalla dominazione sovietica hanno posto i semi di un sentimento russofobo che, nei decenni successivi, è servito da pietra miliare nella costruzione di un immaginario collettivo che assicura solidità ad uno Stato nazione. Da qui prende forma la russofobia nei Baltici come efficace strumento di propaganda, che a volte sfocia in un inquietante negazionismo storico, dal quale la separa un filo sottilissimo.