Se da una parte è vero che il bilaterale fra i capi di stato di Usa e Urss, Ronald Reagan e Michail Gorbačëv, si risolse sostanzialmente in un nulla di fatto, d’altra parte non si può non sottolineare che costituì un importante passo avanti verso una progressiva riduzione degli armamenti, nonché verso la fine della Guerra fredda.
Il vertice si tenne l’11 e il 12 ottobre del 1986 nella capitale islandese e dimostrò al mondo, oltre alle capacità diplomatiche del leader sovietico, la volontà di quest’ultimo e del presidente americano di aprire una nuova fase delle relazioni bilaterali fra i due imperi in costante competizione. Lasciare finalmente alle spalle i toni duri, le minacce e gli interventi armati destabilizzanti nei rispettivi territori di influenza e iniziare ad affrontare la deriva dell’eccesiva corsa agli armamenti e il numero elevatissimo di pericolose testate nucleari che sfuggivano alla logica della mutua deterrenza.
Accademici e storici hanno discusso (e continuano a farlo) sui motivi che spinsero il leader sovietico a patrocinare il summit con tanto ardore: tra chi crede nella autentica buona fede di Gorbačëv e chi invece inquadra l’assertività pacifista del leader sovietico come una palese ammissione di inferiorità e debolezza strategica, si può comunque affermare che senza il “fallimentare” vertice di Reykjavik non si sarebbero poste le basi dell’importante e politicamente fortunato trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty). Un trattato che pose una definitiva ipoteca alla vicenda dei missili nucleari a raggio intermedio, installati da USA e URSS sul territorio europeo: gli SS-20 sovietici e i missili americani IRBM Pershing-2 e quelli cruise da crociera BGM-109 Tomahawk.
L’elezione di Gorbačëv alla più alta carica dell’Unione Sovietica aveva cambiato radicalmente la direzione della politica sovietica. Il segretario generale del PCUS si rese subito conto della necessità di una profonda modifica della dialettica dei rapporti internazionali con i Paesi occidentali al fine di avviare un comune programma di mutua collaborazione. In questa prospettiva si fece promotore di diverse proposte riguardanti il disarmo nucleare accolte però in maniera altalenante dalla controparte occidentale. Secondo i suoi stretti collaboratori, Gorbačëv considerava il progresso nel disarmo nucleare come un fattore chiave nella creazione di condizioni esterne favorevoli per la riforma economica e politica in Unione Sovietica. I suoi piani, forse troppo ambiziosi per l’epoca, prevedevano un graduale disarmo mondiale da effettuare in tre fasi progressive: in primis un piano di dimezzamento delle armi nucleari in possesso delle due potenze, in secondo luogo la cessazione dei test di sviluppo di tecnologie missilistiche, ed infine un accordo di non proliferazione nucleare a cui avrebbero aderito tutte le nazioni. Un’utopia coraggiosa.
Senza il “fallimentare” vertice di Reykjavik non si sarebbero poste le basi dell’importante e politicamente fortunato trattato INF […]
Cupcake Ipsum, 2015
Il vertice di Reykjavik era inteso come un incontro “intermedio” che avrebbe dovuto dare una spinta ai negoziati, destinato a raggiungere due scopi. Da un lato, avrebbe permesso ai due presidenti di evitare le pressioni e le formalità di un incontro al vertice su vasta scala, svolgendosi al di fuori delle sedi regolari (come Ginevra o Vienna). D’altro canto, nessuna delle due parti era disposta a tenere un incontro a Washington o Mosca in quanto avrebbe creato fin troppe aspettative nell’affrontare questioni di così delicata importanza.
Le resistenze all’interno degli apparati delle rispettive potenze erano però ai tempi troppo forti (il Segretario alla Difesa Caspar Weinberger minacciò le dimissioni nel caso di accordi troppo sfavorevoli al blocco occidentale) per dare seguito a tale rivoluzione e dunque i due capi di stato, consapevoli di queste resistenze, si recarono in Islanda con poche speranze: ci si aspettava di raggiungere pochi o nulli risultati.
Le trattative infatti si arenarono quasi subito. Il presidente Reagan si impuntò sul rispetto dei diritti umani, sulla flagrante violazione delle convenzioni internazionali nel corso dell’invasione dell’Afghanistan e sul trattamento dei dissidenti, mentre Gorbačëv si dimostrò poco collaborativo sulle questioni non riguardanti gli armamenti. Il suo intento era infatti quello di strappare alla controparte un accordo quanto più favorevole possibile, da vendere all’opinione pubblica internazionale e interna screditando, al contempo, il compatto fronte degli scettici e dei detrattori della Perestrojka.
Il summit terminò dunque in un nulla di fatto. Eppure al giorno d’oggi, col senno del poi, può considerarsi come una vittoria tattica della diplomazia. Ciascuna delle due potenze avrebbe, nel corso degli anni, accolto con sempre maggior favore le iniziative e i segnali di distensione della controparte. Gorbačëv non riuscì a portare a segno gli ambiziosi progetti di riforma della decadente struttura statale sovietica, né a impedire il crollo di un regime oppressivo schiacciato fra militarismo, gerontocrazia e fragilità economica, ma dimostrò a sostenitori e detrattori l’importanza della trattative e della diplomazia anche in un contesto fortemente ideologico come quello della Guerra Fredda.