Il Kirghizistan è un piccolo Paese montagnoso e scenografico situato fra la Cina e i Paesi confinanti dell’Asia Centrale. È una nazione povera, fortemente dipendente dagli aiuti esterni e dal contrabbando transnazionale. Paradossalmente, nonostante i bassi livelli di sviluppo, è l’unico fra i paesi dell’Asia Centrale ad aver rovesciato il proprio Governo diverse volte e manifesta i più alti livelli di libertà di stampa e democrazia. Questa situazione di turbolenza interna (principale causa dei diversi regime changes) è spiegata proprio dal malessere economico ampiamente diffuso e da un apparato repressivo meno funzionale che nei Paesi confinanti. Ampiamente ignorato dai media internazionale, è recentemente salito alle cronache per episodi di terrorismo internazionale ma è innegabile un maggiore interesse del turismo in un’area del mondo ammantata di mistero, fra natura incontaminata e vive tradizioni autoctone. Lo scarso peso internazionale non permette al Paese di esercitare una politica estera indipendente; necessità economiche (il faraonico progetto cinese “One Belt One Road”) e strategiche lo relegano nella sfera di influenza delle grandi potenze. L’emergere di un fondamentalismo jihadista autoctono o d’importazione (lo Xinjiang, l’instabile regione cinese a maggioranza turco uigura è aldilà parte del poroso confine) ha sollevato le preoccupazioni della comunità internazionale ma scarse e inadeguate sono state le misure atte a contrastare e prevenire il fenomeno. Il Kirghizistan è un Paese affascinante e sull’orlo di importanti cambiamenti e merita un’analisi approfondita.
Contesto storico
Terra di migrazioni e di popoli dalla fama leggendaria (sciiti e sogdiani), la regione ha vissuto in prima persona le turbolenze, le invasioni e gli stravolgimenti politici di un’area di confine fra l’Islam e la millenaria cultura cinese. Perno della via della seta, ha sperimentato il dominio degli achemenidi e fu tappa delle innumerevoli gesta di Alessandro Magno. Feudo dei persiani sassanidi, fu con la dominazione dei mongoli e l’inglobamento nell’uzbeko Khanato di Kokand che iniziò a conoscere periodi di pace e sviluppo economico. L’invasione russa e l’inclusione nella macroregione del Turkestan, con immancabili devastazioni e massacri, costituì un tassello importante nello sviluppo di un’embrionale coscienza nazionale germinata fra atavica resistenza e fioritura culturale. Il successivo dominio sovietico significò per la piccola realtà dell’Asia Centrale investimenti nell’alfabetizzazione e nei servizi ma portò con sé dei risvolti negativi: gli stanziamenti forzosi di popolazioni ricollocate dall’Europa (contadini e lavoratori russi e ucraini) o dal Caucaso (collaborazionisti o nazionalisti) modificarono fortemente gli equilibri interetnici, con pesanti conseguenze e tensioni che tutt’ora influenzano gli attuali equilibri e la coabitazione. La soppressione dell’Islam nel corso delle violente persecuzioni antireligiose impedì che si sviluppasse un collante nazionale fra gli autoctoni di stirpe kirghiza e gli uzbeki mentre russi ed ebrei, funzionari e quadri dirigenti, si stanziarono nelle città (Frunze – l’odierna Bishkek – fra tutte) scavando una voragine di diffidenza fra le etnie a dispetto del mito della coesistenza propagandato dal regime sovietico.
Il 25 dicembre 1991, nel corso del più ampio processo di dissoluzione dell’impero sovietico, il Paese ottenne l’indipendenza e giocoforza e, al pari dei Paesi confinanti, l’élite di derivazione socialista riuscì a impadronirsi delle leve di potere approfittando dei residui contingenti russi, del controllo dei media e dei gangli dell’economia. Askar Akayev, moderato esponente della nomenklatura, si impossessò del Governo del Paese e ne resse i destini fino alle fatidiche giornate del marzo del 2005. La rivoluzione dei tulipani rappresentò il culmine dell’insofferenza popolare di fronte al malgoverno di una classe politica incapace di creare consenso: corruzione, soppressione dei naturali diritti umani e una profonda recessione economica contribuirono fatalmente a spingere nelle piazze folle oceaniche (evento di per sé unico in un’area caratterizzata da profonda indolenza politica) costringendo il presidente e l’entourage ad una fuga precipitosa. Rimpasti di Governo, vendette e faide politiche catapultarono il Paese in uno stato di profonda anarchia, mentre tensioni interetniche fatalmente sottovalutate esplosero nel 2010 quando nella città occidentale di Osh, multietnica e crocevia con il vicino Uzbekistan, scontri fra bande di uzbechi e kirghisi degenerarono in sanguinosi pogrom reciproci, portando il Paese a un passo dalla guerra civile, evitata solamente dall’intervento (tardivo) dell’esercito russo, le dimissioni del presidente in carica, Kurmanbek Salievič Bakiev e la formazione di un Governo ad interim.
L’esodo in massa dei russi etnici post indipendenza privò il paese di un importante apporto professionale e tecnico facendo precipitare il Paese in una profonda crisi economica, solo parzialmente mitigata dai finanziamenti esteri. Sooronbay Jeenbekov guida il Paese dalle elezioni del 2017 ma poco o nulla è cambiato nella struttura dello Stato. A fronte di un miglioramento del tenore di vita nelle grandi città, dove non è raro avvistare macchine di lusso, continui cantieri e faraoniche strutture che cancellano l’architettura di stampo sovietico, corrisponde una profonda miseria nelle campagne dove ancora persiste il nomadismo. La sussistenza, il contrabbando e le rendite degli immigrati costituiscono le più importanti fonti di reddito, complice la mancanza di risorse naturali, mentre il turismo soffre della sottoesposizione mediatica della nazione, della scarsità o gestione delle infrastrutture nonché dei recenti fatti di cronaca, che vedono l’emergere di un’ embrionale forma di jihadismo organizzato ferocemente contrastato, ma in parte causato, dal Governo centrale.
L’influenza russa: condizione inevitabile nel presente del Kirghizistan
Il Kirghizistan è l’unico Paese dello scacchiere geopolitico dell’Asia Centrale che conserva un forte legame con Mosca. La presenza di una residua (6%) ma influente compagine etnica russa, la fragilità economica, la diffusa sinofobia (che ne pregiudica i rapporti con il confinante impero di mezzo) e la presenza di contingenti militari russi fanno del Paese un ferreo alleato e un avamposto della politica russa in un territorio dove la proiezione di potere del Cremlino va incontro ad una progressiva erosione. La proiezione russa nel contesto preso in esame si articola lungo tre dimensioni: cooperazione tecnico-militare (dalla modernizzazione delle forze armate alla costruzione di basi militari), progetti energetici comuni e rafforzamento del processo che inquadra il Paese nei comuni destini dell’Unione Economica Euroasiatica. Oltre all’aeroporto della città di Kant, dove operano diverse centinaia di soldati russi, Mosca dispone di installazioni militari in almeno quattro regioni del Paese tra le montagne del Tian Shan e il confine con il Kazakistan. Seicento consiglieri militari ed ex operativi delle forze speciali addestrano l’esercito kirghiso in azioni di prevenzioni del narcotraffico e antiterrorismo mentre ammonterebbero a 1,1 miliardi di dollari gli investimenti diretti ad ammodernare il parco velivoli dell’aviazione kirghisa. Inoltre è notizia recente quella di stanziamenti ingenti al fine di promuovere l’addestramento dei piloti kirghisi nelle prestigiose accademie militari russe.
La base americana di Manas, vitale in passato per rifornire i marines impegnati nella guerra in Afghanistan, ha subito un drastico sfratto dopo un duro scontro diplomatico tra Mosca e Bishkek, mettendo la parola fine a possibili intese con Washington. Quest’anno l’esercitazione militare Cooperation 2018 si è svolta proprio in Kirghizistan (nella base di Edelweiss) dal 10 al 13 ottobre con la partecipazione di oltre 1.600 militari da Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan, oltre a 300 unità di equipaggiamento militare e 40 aerei militari ed elicotteri. La proiezione militare di Mosca si rende necessaria anche a fronte di crescenti investimenti europei e americani, con i primi impegnati a investire nei progetti di scambio e di cooperazione internazionale (borse di studio o scambi universitari) e i secondi, intenzionati a creare un cordone di sicurezza intorno alle possibili aree di influenza russa, che rafforzano i legami con l’Uzbekistan di Shavkat Mirziyoyev (successero dell’eterno presidente Islam Karimov).
La Cina, alleato ambiguo della Russia, beneficia del rafforzamento militare nel Paese, dandosi garanzia di frontiere più sicure e contrasto al terrorismo transfrontaliero uiguro e assicurando di rimando utili e partecipazioni nei progetti di investimento nelle infrastrutture nella cornice della “nuova via della Seta”. Il secondo tassello del deciso coinvolgimento russo passa per progetti di mutua cooperazione economica ed energetici. La decisione di cancellare il debito kirghiso è frutto del lobbismo Gazprom (la più grande compagnia esportatrice di gas russo), che non ha fatto mistero di voler coinvolgere il Paese nei suoi piani di espansione commerciale. Il gigante energetico avrebbe l’intenzione di investire 100 miliardi di rubli nella rete del gas nazionale, in modo che la sua copertura aumenterebbe dall’attuale 22% al 60% dell’intero territorio del Paese, diversificando il mercato in vista delle pesanti sanzioni a cui è soggetta e ponendosi in condizione di monopolio. In ultimo, ma non meno importante, la Russia dispone di una potente leva di ricatto: i milioni di lavoratori kirghisi che attualmente affollano le periferie delle città russe (vittime di pesanti fenomeni di sfruttamento, esclusione sociale e a rischio radicalizzazione) contribuiscono con le loro rimesse per un terzo alla fragile economia del Paese d’origine. Ogniqualvolta che i leader kirghisi cercano di svincolarsi dal pesante abbraccio russo e perseguire una politica indipendente, Vladimir Putin minaccia di introdurre misure stringenti nella procedura di ottenimento dei visti lavorativi e quindi l’espulsione di centinaia di migliaia di irregolari, imprescindibile fonte di entrate per le casse di Bishkek cronicamente a secco di liquidità. Non ha suscitato sorprese, quindi, l’entrata del Paese nell’Unione Economica Euroasiatica, organizzazione internazionale blandamente basata sull’Unione Europea che rappresenta il fiore all’occhiello della proiezione geopolitica della Russia fra i Paesi dell’ex Unione Sovietica.
Il Kirghizistan e il terrorismo: cause, proiezione internazionale e rimedi
Comprendere il fenomeno del terrorismo in Asia Centrale non può prescindere dall’analizzare i contesti di insurrezione jihadista nello scacchiere internazionale. Svariate centinaia sono i foreign fighter kirghisi che combattono al fianco del califfato o in milizie qaediste in tutti i teatri delle insurrezioni jihadiste. Il territorio russo stesso e San Pietroburgo in particolare. Quest’ultima infatti ha tristemente sperimentato il 3 aprile scorso la pericolosità del fenomeno di gran lunga sottovalutato. Quattordici compreso l’attentatore (Akbarzhon Jalilov, kirghiso di Osh nella Valle del Fergana) le vittime del brutale attacco alla metropolitana della ex capitale imperiale. Gli arresti e le operazioni di antiterrorismo dei servizi del Cremlino hanno permesso di stroncare diverse cellule operative nella periferia russe dove l’esclusione sociale, la povertà e lo sradicamento di moltissimi immigrati centroasiatici crea un retroterra fertile per la propaganda di reclutatori (principalmente ceceni e caucasici) e imam convertiti alla lotta armata.
Varcando il confine russo è la sopracitata Valle del Fergana, montagnosa regione fra Kirghizistan e Uzbekistan, il “paradiso” nonché base operazionale di lupi solitari o gruppuscoli organizzati in costante conflitto con le autorità locali. L’apparente vivacità democratica non ha impedito la creazione di partitocrazie plutocratiche che puntualmente escludono un vasto settore della popolazione dalla distribuzione della ricchezza alimentando frustrazione, alienazione e risentimento che troppo spesso si tramuta in radicalismo. La condizione di precarietà economica non è ovviamente l’unica spiegazione all’insorgenza del fenomeno: il vuoto ideologico causato da decenni di dominio sovietico e la politica di un Governo centrale che si dimostra incapace di distinguere fra radicalismo e riappropriazione di una secolare identità islamica reprimendo ogni forma di religiosità manifesta che si distacchi dall’islam irreggimentato e dottrinario propagandato dalle élites al potere.
La continua e ossessiva promozione del nazionalismo etnico ha contribuito alla crescita parallela di una religiosità vista con sospetto e puntualmente sanzionata. Moschee, centri religiosi e scuole coraniche sovvenzionate da attori esterni (si noti la nociva politica di promozione del wahabismo dell’Arabia Saudita) sono spuntate a decine in provincie depresse del Paese, sostituendosi a istituti scolatici mal gestiti e finanziati quando presenti. Le guerre in Siria, in Afghanistan e Iraq, attirando svariate centinaia di combattenti locali, hanno precocemente distratto un apparato antiterroristico ancora impreparato e embrionale. Al termine delle schermaglie in Medio Oriente i foreign fighters torneranno a casa importando capacità militari e logistiche.
Il Kirghizistan sarà in grado di contenere, gestire e controllare questo flusso o rischia di subire un’impennata di attacchi come quello che ha colpito l’ambasciata di Pechino a Bishkek nell’agosto del 2016? Sono da sottolineare importanti sforzi al fine di contribuire e incrementare la cooperazione internazionale in un contesto di confini porosi e incerti. La più importante istituzione contro il terrorismo è la Regional Antiterrorism Structure (RATS) della Shanghai Cooperation Organization (SCO), che unisce le intelligence di Cina, Russia, Kirghizistan, Kazakhstan ma rivalità regionali, influenza delle grandi potenze e diversità di visioni ne pregiudicano il successo. La strumentalizzazione perseguita dal Governo kirghiso che puntualmente utilizza veri o presunti attentati per screditare la fragile opposizione confonde le idee all’interno della disattenta comunità internazionale e alimenta il risentimento domestico. Cooperazione internazionale, miglioramento della situazione economica e lavorativa, contrasto effettivo alle reti di imam e cellule radicali oltre che a un deciso incremento delle libertà civili possono essere un antidoto a un inquietante futuro ma pochi o nulli sono i segnali di progresso da annotare.
Il Kirghizistan con la sua ricchezza culturale e etnica, il suo potenziale turistico e la fortunata posizione geografica possiede le potenzialità adatte per attirare importanti investimenti esteri che ne migliorino le condizioni economiche e sociali, ma la mancanza di una capace classe dirigente nonché la diffusa apatia e rassegnazione ne pregiudicano la stabilità, rischiando la disintegrazione della compagine statale e altrimenti evitabili manifestazioni di violenza armata e separatismo.