Il termine Grande Gioco è spesso utilizzato da media ed esperti in riferimento allo scenario centro asiatico. Secondo l’autore dell’articolo, questo approccio è ormai superato in quanto non tiene conto della complessità e del ruolo sempre più importante che hanno gli attori a livello locale.
È raro oggi, parlando di Centro Asia, leggere articoli o analisi più approfondite che non si riferiscano agli attori coinvolti come partecipanti di un “Grande Gioco”. Il termine deriva da un libro dell’Ottocento scritto dal capitano Arthur Connolly, della Compagnia delle Indie Orientali. Mentre era in servizio per la Compagnia il capitano fu fatto prigioniero dall’Emiro di Bukhara e decapitato con l’accusa di spionaggio nel 1842. In seguito la storia di Connolly e altri avvincenti racconti furono raccolti nel più famoso libro “Il Grande Gioco”, scritto dal giornalista britannico Peter Hopkirk nel 1990. Il libro tratta del confronto, protrattosi per gran parte del diciannovesimo secolo, tra Impero Zarista e Inghilterra vittoriana e della loro corsa per estendere la loro influenza nella regione Centro asiatica. Una regione composta in gran parte da territori non ancora mappati e regni con sovrani sanguinari in cui si misurarono e modellarono le sfere di influenze russa e britannica che sarebbero poi resistite, con vari aggiustamenti, fino al ventesimo secolo.
Sebbene l’espressione “Grande Gioco” evochi una serie di immagini legate alla concorrenza di due o più grandi potenze per il “dominio” su un’area come quella centroasiatica, esso oggi non sembra il più adatto a descrivere la situazione della regione. Il dibattito accademico ha ormai superato questa terminologia, troppo incentrata sul ruolo delle grandi potenze e che sostanzialmente non evidenzia abbastanza l’importanza degli attori locali, così come le interazioni fra di essi e le grandi potenze interessate: Russia, Cina, Stati Uniti. Dunque è importante sottolineare alcuni passaggi della storia recente, al fine di comprendere meglio l’interazione tra questi due livelli di analisi: locale (o sub regionale) e sistemico.
Subito dopo il crollo dell’Unione sovietica le neo repubbliche centro asiatiche (Kazakistan, Tajikistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan) siglarono con la Federazione Russa un trattato che sancì la nascita della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Un’organizzazione che, nelle parole del presidente Putin, doveva servire a “gestire un divorzio civile”. Per la maggior parte degli anni Novanta la Federazione Russa era troppo debole, economicamente e militarmente, per implementare i vari accordi siglati con i Paesi dell’Asia centrale. In quegli anni il presidente El’cin e il suo entourage gestivano il passaggio all’economia di mercato ed erano molto più concentrati sulla definizione del nuovo sistema di produzione russo e sulle riforme interne. Inoltre a Mosca si temeva che un troppo veloce recupero dell’influenza russa nella regione centroasiatica avrebbe potuto essere tacciato come un tentativo di restaurare la potenza sovietica, e dunque danneggiare le relazioni con gli Stati Uniti e i paesi Europei. [1]
Nel frattempo nelle repubbliche centroasiatiche le vecchie élite consolidavano il loro potere e sfruttavano il passaggio a sistemi multipartitici e all’economia di mercato per estendere la loro influenza e costruire un modello di potere che si reggesse su un’apparente democrazia controllata in realtà da un partito e una ristretta cerchia di persone. Dal punto di vista della politica estera, mancando l’appoggio di Mosca, esse si rivolsero ad altre potenze regionali, consolidando da una parte i rapporti con Turchia e Iran, e dall’altra aprendo le loro frontiere alla penetrazione economica cinese. La crescente influenza di Pechino nell’area era incoraggiata anche dalla Russia, che vedeva la presenza cinese come un’alternativa che avrebbe potuto frenare invece l’interesse degli Stati Uniti nell’area.
Si venne a creare così un sistema regionale che vedeva nella Russia e nella Cina i due maggiori attori che interagivano con i Paesi centroasiatici. La cooperazione non riguardava solo il campo economico ma anche quello della sicurezza: nel 1996 venne formato il Gruppo di Shanghai, che comprendeva Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan (oltre a Russia e Cina), al fine di un maggiore controllo sulla stabilità delle frontiere.
In un secondo momento fu sempre la Russia del neoeletto presidente Putin ad ammettere che un altro attore accrescesse la sua influenza nell’area: gli Stati Uniti. In cerca di un nuovo dialogo con la Casa Bianca, Putin colse l’opportunità datagli dagli attacchi terroristici dell’11 settembre per offrire la piena collaborazione con Washington. Da una parte questo rientrava nei piani del Presidente russo che avrebbe sfruttato la “guerra totale al terrorismo” indetta da Bush per forzare la mano e aumentare lo sforzo militare contro i separatisti ceceni senza subire attacchi da parte dei Paesi occidentali. Dall’altra, permise a Mosca e Washington di trovare un’intesa e una collaborazione dal punto di vista della sicurezza internazionale, in particolare nell’area centroasiatica. In un secondo momento però divenne chiaro che l’invito fatto agli americani avrebbe potuto costituire via via una minaccia agli interessi russi e cinesi, in particolare dopo la creazione nel 2001 della Shanghai Cooperation Organization.
È a metà degli anni Duemila, infatti, che iniziò la fase delle “Rivoluzioni Colorate” in Centro Asia, una serie di movimenti interni ai paesi post sovietici che chiedevano una maggiore democrazia e che attraverso proteste, pacifiche e non, portarono a dei cambi di regime. La rivoluzione delle Rose portò alla deposizione del presidente georgiano Ševardnadze, sostituito pacificamente da Michail Saak’ashvili, assai più nazionalista e filo-occidentale. Nel 2004, in Ucraina, i risultati delle elezioni presidenziali furono contestati da manifestanti che diedero inizio alla “rivoluzione arancione”. In questo contesto gli sforzi dell’impreditrice Julija Timošenko portarono alla sostituzione del Presidente neoeletto Janukovyč con il secondo arrivato alle votazioni, Viktor Juščenko. Infine nel 2005, in Kirghizistan, ebbe luogo la “rivoluzione dei tulipani”, questa volta di carattere violento. Il presidente Akaev fu costretto a fuggire all’estero e il nuovo presidente Bakiev appena installato chiese subito un innalzamento dell’affitto dovuto dal governo degli Stati Uniti per la presenza della base aerea di Manas, centro logistico fondamentale per sostenere le operazioni belliche in Iraq e Afghanistan. [2]
Per sottolineare quanto importante sia il livello di analisi locale è opportuno citare il caso dell’Uzbekistan. Nel 1997 l’Uzbekistan di Karimov uscì dal CSTO e aderì al GUUAM, un’organizzazione di carattere militare che comprendeva Georgia, Ucraina, Azeibaijan e Moldova che prevedeva la cooperazione con le forze NATO. Tuttavia, nel 2005 l’Uzbekistan, in seguito alla repressione violenta di moti di protesta nati nella città di Andijian, abbandonò il GUUAM e tornò su posizioni più filorusse ricevendo così sostegno economico e militare da Mosca, nonché l’endorsement di Putin al governo di Karimov[3]. Nel 2012 il Paese si ritirò ancora una volta dal CSTO.
Per un’efficace analisi della regione centroasiatica e del ruolo svolto dai vari attori è dunque necessario allontanarsi dal concetto di nuovo Grande Gioco per intraprendere invece un percorso che porti verso un’analisi a livello sub-regionale, come suggerisce Filippo Costa Buranelli nel suo articolo.
Mentre nel Grande Gioco citato da Hopkirk i khanati e altri attori regionali subivano le scelte delle grandi potenze come Impero Russo e Impero Britannico, oggi lo scenario è più complesso e coinvolge non solo gli attori di rilevanza globale (Russia, Cina e Stati Uniti), ma anche attori locali, ovvero le repubbliche ex sovietiche, che cooperano tra loro o che competono per imporsi come attori principali a livello regionale.
Se da un lato infatti le repubbliche ex sovietiche hanno cooperato tra loro per mantenere i loro regimi chiusi e non democratici, dall’altro esse sono entrate in competizione per garantirsi l’appoggio delle potenze globali attraverso la stipulazione di patti bilaterali offrendo diversi tipi di “risorse”: naturali o semplicemente di supporto logistico. O ancora, offrendo parziali aperture democratiche.
L’analisi a livello regionale presenta dunque un quadro nel quale la crescente influenza cinese porta la Federazione Russa a sentirsi minacciata. Allo stesso tempo, tuttavia, Mosca e Pechino cooperano per limitare l’influenza americana nell’area e la possibilità di nuove rivoluzioni colorate ispirate dai valori occidentali.
Infine vi è un’altra differenza con la narrativa classica del Grande Gioco, in cui le grandi potenze competevano in un gioco a somma zero. Bisogna infatti tenere conto che tutti e tre gli attori sopra citati (Usa, Russia e Cina) oggi condividono gli stessi interessi verso la regione centroasiatica. In primo luogo essi, pur con declinazioni diverse, sono impegnate nella “guerra al terrorismo”, ciò le porta a cercare una seppur minima intesa.
Ecco dunque come gli accadimenti degli ultimi venti anni in Centro Asia possano essere solo in parte etichettati come Grande Gioco tra “super” potenze. Sono in realtà gli stessi attori principali a cercare di volta in volta la competizione o l’accordo fra loro. Ed inoltre è molto più complessa di una volta, e rilevante, la partita giocata dagli attori locali a livello regionale.
[1] Benvenuti F., Russia Oggi. Dalla caduta dell’Unione Sovietica ai nostri giorni, Roma, Carrocci Editore, 2013.
[2] Benvenuti F., Russia Oggi. Dalla caduta dell’Unione Sovietica ai nostri giorni, Roma, Carrocci Editore, 2013.
[3] Ibidem