La decisione americana di uscire dal Trattato INF, annunciata nei giorni scorsi, non è certo caduta improvvisa tra gli addetti ai lavori, ma ha comunque provocato un piccolo terremoto di reazioni internazionali, quasi tutte di stampo negativo. Dall’Europa alla Russia, un termometro della tensione strisciante di questa epoca.
Il Trattato INF, stipulato nel 1987 da Gorbačëv e Reagan, è stato da molti storici considerato come una delle tappe fondamentali per la conclusione della Guerra fredda. Le due superpotenze si erano infatti accordate in favore della distruzione di centinaia di missili di corto e medio raggio (da 500 a 5500 km d’azione), i famosi “euromissili” che tanto avevano agitato l’Europa. Grazie al Trattato, USA e Russia hanno fino ad oggi smantellato ben 2692 missili (846 americani e 1846 russi) e scongiurato in parte i pericoli di un’escalation nucleare sempre temuta.
Era prevedibile che le tensioni degli ultimi anni, che hanno fatto spesso parlare di nuova Guerra fredda (erroneamente: la storia non si ripresenta mai sotto le stesse vesti), facessero incrinare certi equilibri. Nel 2014 Obama aveva denunciato la violazione da parte russa del Trattato INF (già dal 2008, secondo Washington), ma senza alcuna conseguenza pratica. Adesso Trump, spinto in particolar modo dal suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, ha optato per la drastica opzione dell’uscita americana dal Trattato, che potrebbe essere operativa entro sei mesi.
Su John Bolton bisognerebbe aprire una nota a parte. Repubblicano di ferro, secondo fonti autorevoli e non certo accusabili di essere filorusse (come ad esempio il Guardian), avrebbe rinunciato a proseguire i colloqui intrapresi lo scorso agosto a Ginevra con la sua controparte russa Nikolaj Patrušev. Anzi li avrebbe espressamente bloccati, nonostante la disponibilità da parte di Mosca a qualche forma di compromesso (almeno stando a quanto dichiarato da Alexandra Bell, ex funzionaria per il controllo degli armamenti presso il Dipartimento di Stato, ora al Centro per il controllo degli armamenti e la non proliferazione).
Gli obiettivi USA non sono certamente oscuri. A preoccupare Washington non è tanto la minaccia russa, relativamente limitata sia dal punto di vista tecnologico sia da quello più prettamente connesso alle forze numeriche, quanto piuttosto la continua ascesa delle disponibilità missilistiche da parte della Cina, non firmataria dell’INF e quindi per nulla sottoposta agli stringenti vincoli del Trattato. Con l’uscita da esso, Trump e la sua amministrazione hanno quindi voluto rilanciare lo sviluppo del settore missilistico americano, per evitare una futura e tardiva rincorsa a Pechino e per mandare comunque un discreto segnale di avvertimento a Mosca. E adesso avranno la possibilità di sviluppare le proprie installazioni in certe posizioni strategiche, come Guam o il Giappone.
Naturalmente la più diretta conseguenza sarà una nuova potenziale corsa agli armamenti, che spaventa già l’Europa (e di cui, ci sia concesso, non si sentiva proprio il bisogno). Inoltre, la nuova direzione di Washington potrebbe incidere direttamente su altri equilibri raggiunti, primo fra tutti quello del Trattato New Start (relativo al numero di testate nucleari) che scadrà nel 2021 e sul cui rinnovo già si posano pesanti ombre.
Trump e la sua amministrazione hanno quindi voluto rilanciare lo sviluppo del settore missilistico americano, per evitare una futura e tardiva rincorsa a Pechino e per mandare comunque un discreto segnale di avvertimento a Mosca
Cupcake Ipsum, 2015
La reazione russa non è naturalmente mancata. In molti segnalano le dichiarazioni di Gorbačëv, primo firmatario del Trattato INF che ha puntato il dito contro la miopia strategica dell’amministrazione USA (“Non si rendono conto delle conseguenze?”). Ma per capire meglio appunto tali conseguenze, ci si deve avvicinare maggiormente dalle parti del Cremlino. Pochi giorni prima, alcune dichiarazioni espresse da Putin all’incontro annuale d’affari del Valdai Club avevano fatto scalpore. Anzi, secono alcuni analisti, il tempismo del successivo annuncio di Trump sarebbe collegato alle esplicite affermazioni, da parte del suo omologo russo, relative alla possibilità di un’aggressione americana ai danni di Mosca (e naturalmente alle capacità di risposta delle forze missilistiche russe). In ogni caso, è chiaro che l’aria di un inasprimento delle tensioni bilaterali russo-americane (al di là delle intenzioni anti-cinesi di Trump) si respirasse già da qualche tempo al Cremlino. Ed è altrettanto chiaro che di fronte a ciò la Russia non resterà a guardare.
Nessuno scenario apocalittico, nell’immediato, benché le solite cassandre si stiano già adoperando per lanciare simili allarmi. Né sembra realistica la portata dell’annuncio dell’ambasciatrice americana presso la NATO Kay Bailey Hutchison, secondo la quale il proprio Paese sarebbe pronto a colpire i missili russi oggetto della contesa. Tuttavia, il “liberi tutti” di Trump potrebbe dare un impulso decisivo alle correnti belliciste di Mosca, rinforzate già dal senso di accerchiamento predominante da tempo in certe stanze del potere russo.
Secondo Konstantin Kosačev, Presidente della Commissione Esteri alla camera alta del parlamento russo, la Russia non reagirà tanto all’uscita in sé degli USA dal trattato, bensì alle mosse concrete che Washington compirà dopo, con le mani libere. La dottrina strategica russa del “secondo colpo” (tale per cui Mosca lancerebbe i suoi missili solo in risposta ad analoga azione avversaria), citata espressamente da Putin al Valdai Club, rimarrà sicuramente invariata. Ma le sue modalità operative sono quelle che destano maggior preoccupazione, specie in Europa. Non si ha la certezza che il protocollo della “Mertvaja Ruka“, studiato durante la Guerra fredda per scoraggiare ogni ipotesi di aggressione americana, rientri ancora nei piani segreti del Cremlino. Per chi non lo conoscesse, esso prevedeva una risposta automatica ad una ipotetica aggressione nucleare statunitense, tale per cui anche in una situazione di annientamento fisico degli alti comandi politici e militari sovietici, da parte di Mosca sarebbe comunque partita una risposta missilistica altrettanto letale per gli avversari. Dalle parole di Putin potrebbe sembrare così, ma è probabile che i protocolli e le previsioni più ardite dell’era bipolare siano finite nel cassetto da tempo.
Tornando invece al campo del reale, o meglio del realistico, bisogna rilevare una crescente preoccupazione da parte russa rispetto all’erratica strategia dell’amministrazione Trump (e dei suoi apparati, che non sempre vanno nella stessa direzione). Una preoccupazione che, ancora una volta (e per ironia della sorte?), accomuna Mosca alle cancellerie europee. Certo, accomunare non significa necessariamente avvicinare, ma è pur sempre una condizione necessaria (anche se non sufficiente) per l’avvio di convergenze politiche. Con tutta probabilità, qualora dovesse arrestarsi il dialogo con Trump (le prossime elezioni americane di mid-term daranno sicuramente qualche risposta), Putin proverà a giocare anche questa carta.