Mentre nel nostro Paese non se ne sta parlando molto, in questi giorni, e precisamente dal 25 ottobre al 7 novembre, in Norvegia è in corso la più grande esercitazione NATO dai tempi della Guerra Fredda.
A poco meno di un mese da Vostok 2018, dall’operazione congiunta tra Russia e Cina, l’Alleanza Atlantica lancia la Trident Juncture 2018, che ha luogo nei Paesi del Mar Baltico e Mare del Nord, un punto estremamente strategico per la Russia.
Forze di terra, aereonautica e marina di tutti i 29 Paesi Nato sono state mobilitate per un’esercitazione su larga scala. L’operazione vede anche la partecipazione di Svezia e Finlandia, che membri della NATO non sono ma hanno già contribuito alle operazioni in Afghanistan e Kosovo. L’esercitazione vedrà quindi la partecipazione complessiva di circa 50 mila soldati, 250 aerei militari, 65 navi e 10 000 veicoli da terra. Con l’aggiunta delle unità dei Paesi non – Nato, 13 mila soldati in più oltre i 50 mila parteciperanno a Trident Juncture 2018.
Il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha dichiarato che l’operazione non è assolutamente di contenimento della Russia e ha invitato la stessa Federazione ad inviare propri contingenti per supervisionare l’operazione. In ogni caso la manovra ruota principalmente intorno al coordinamento multilaterale nelle acque del Mare del Nord e il numero elevato di navi impiegato fa presupporre che l’esercitazione abbia anche l’obiettivo di confrontare l’azione sottomarina della Voenno – morskij flot.
Ma non sono tanto i numeri schierati che hanno destato le preoccupazioni del Cremlino, dato che Vostok non aveva nulla a che invidiare in quanto a dimensioni: 200 000 i militari schierati, 400 tra aerei ed elicotteri militari, 50 navi e più di 7000 mezzi schierati sulla terraferma, inclusi lanciarazzi e mortai.
Ciò che ha scatenato le reazioni negative di Mosca, è stato lo scenario scelto per la Trident Juncture 2018. Mentre l’operazione congiunta con la Cina ha avuto luogo a Tsugol, nella regione della Transbaikalia in Siberia Orientale, vicino al confine mongolo, la zona scelta per Trident Juncture non solo ha rappresentato un’area di forti antagonismi durante la Guerra Fredda, ma, trovandosi a solo 200 chilometri dal confine russo, rispecchia le condizioni climatiche e territoriali in cui i soldati andrebbero ad operare se il tutto avvenisse all’interno della Federazione. Oltretutto, i contingenti dispiegati, dall’Islanda ai Baltici, passando per i Paesi Scandinavi, vanno ad accerchiare Kaliningrad, l’enclave russa nei Baltici. E dunque il Cremlino si interroga su quale sia il messaggio che i Paesi dell’Alleanza Atlantica vogliono lanciare con una tale manovra. I Paesi Nato, spostando le pedine in un punto strategico, lanciano una sfida al gigante russo e con ogni probabilità Mosca abbandonerà l’idea di un rafforzamento della cooperazione nel Mar Baltico.
Non c’è dunque da stupirsi se i diplomatici di Mosca ritengono che il nemico “presunto” dell’esercitazione sia invece reale e ben definito. Come dichiarato dallo stesso Ministero degli Esteri “La Trident Juncture 2018 non è altro che un’operazione di contenimento in chiave anti – russa”.
Per comprendere meglio le complicazioni diplomatiche che intercorrono tra Russia e i Paesi Nato in seguito alla Trident Juncture, bisogna inserire la stessa in un quadro geopolitico più ampio – e anche abbastanza recente – che vede ancora una volta Stati Uniti e Russia protagonisti di un revival della Guerra Fredda.
La scorsa settimana, il Presidente Trump ha dichiarato l’intenzione di voler uscire dall’ Accordo di INF firmato dai presidenti Gorbachev e Reagan nel 1987, un vero e proprio spartiacque nelle relazioni tra le due potenze, per il fatto che prevedeva sia la riduzione reciproca delle testate missilistiche ma soprattutto la rinuncia ai missili nucleari a raggio intermedio schierati in Europa.
Da premettere che l’obiettivo di Trump non è direttamente la Russia quanto la Cina: il ritiro dall’INF sarebbe da inquadrare in un’azione di contenimento di Pechino in vista di un possibile aumento del suo arsenale nucleare.
Una parte dell’opinione crede infondate le paure di una nuova spirale di corsa agli armamenti, poiché nel corso degli anni lo stesso INF aveva perso il suo iniziale valore strategico, tanto che la stessa Federazione Russa non ne aveva nemmeno fatto menzione nel suo ultimo Foreign Policy Concept del 2016 e più di una volta le due potenze si sono accusate reciprocamente del mancato rispetto degli accordi. Questa visione sostiene l’impossibilità di un’escalation di terrore nucleare, considerando nuovi teatri di collaborazione rispetto al 1987, come il Medio Oriente, che vedono intrecciarsi gli interessi delle grandi potenze. O ancora, si potrebbero trovare soluzioni multilaterali che perseguono il meccanismo di incentivi/disincentivi, schema adottato per l’accordo sull’Iran del 2015.
L’altra metà, che trova riscontro in un’approfondita analisi dell’Istituto russo Carnegie, sostiene che non bisogna sorvolare troppo il tema di nefaste conseguenze, soprattutto per la Russia. L’uscita di Trump dall’INF sarebbe in via teorica di supporto per una rinuncia al New Start dell’amministrazione Obama, decisione che automaticamente farebbe cadere anche i precedenti START I, II e III e gli accordi SORT, ovvero tutto quel processo di denuclearizzazione avviato a partire dal 1991 con gli allora presidenti Bush e El’cin. Fra le tante possibilità, ciò costituirebbe il lascia passare per Washington per posizionare nuovamente missili balistici a medio raggio in quella cintura orientale europea che tanto teme le mire espansionistiche di Mosca e che va dai Baltici alla Polonia.
Una volta che il vaso di Pandora è stato scoperchiato, anche il TNP comincerebbe a vacillare, e a quel punto la Russia si troverebbe letteralmente accerchiata da potenze che inseguirebbero la rinata logica della corsa agli armamenti. Per comprendere la politica di accerchiamento di cui la Russia si sente vittima, è sufficiente rinunciare per il momento alla nostra mappa eurocentrica ed osservare la situazione sotto un’altra prospettiva che pone la Russia in mezzo al Nuovo e al Vecchio Continente. Immaginiamo infatti uno scenario multilaterale di corsa agli armamenti (quale sarebbe appunto in un mondo non più bipolare come quello del ’87) che vedrebbe coinvolte non solo le tradizionali potenze nucleari, quali Cina, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord, ma anche i vicini costretti ad aumentare la propria sicurezza, vale a dire Iran, Corea del Sud, Arabia Saudita, Turchia e – visti i più recenti sviluppi – anche il Giappone.
Quest’analisi, pur rappresentando uno scenario utopico e ancora visionario per il momento, è corretta perlomeno a rigor di logica. Ma la Russia, Paese dalle frontiere sconfinate, si è abituata nel corso dei secoli a pensare seguendo traiettorie di lungo periodo per difendersi da eventuali minacce esterne, che provengano queste dall’Europa, dall’America, dal Caucaso e Medio Oriente o dall’Asia.
L’esercitazione Trident Juncture 2018 va a toccare l’ennesimo punctum dolens delle relazioni tra Russia e Occidente, ovvero il controllo delle acque del Mar Baltico e del Mare del Nord. Inoltre, date le tempistiche dell’operazione, с’è da aspettarsi un inasprimento delle relazioni con l’Occidente. In ogni caso, chiarimenti sulle posizioni del Cremlino a riguardo non si faranno attendere dal momento che per l’undici novembre è previsto l’incontro tra Putin e Trump e dalla Casa Bianca giunge un nuovo invito per l’inquilino del Cremlino in vista del nuovo anno.