In generale, le elezioni di Midterm statunitensi costituiscono un passaggio obbligato con cui il Presidente deve fare i conti alla metà del suo mandato. Quasi sempre, storicamente, si traducono in una perdita della maggioranza relativa (almeno alla Camera) e dunque di un parziale ridimensionamento delle possibilità operative del governo.
Le elezioni del 6 novembre non si sono discostate da questo modello. I democratici hanno vinto – come previsto – alla Camera, ma hanno lasciato il Senato alla maggioranza repubblicana. Dunque un sostanziale pareggio che farà dormire sonni relativamente tranquilli a Trump, e non cambierà radicalmente alcuno degli scenari in corso. Tantomeno in politica estera.
Il Congresso è una struttura, per sua natura, fortemente ideologica e ciò si riflette facilmente nei poteri (essenzialmente di bilancio) che utilizza nel campo della politica estera. La Russia resta il nemico per eccellenza per buona parte dei deputati di entrambe le sponde, i quali spesso non si fanno scrupoli nel promuovere nuove sanzioni o nel censurare certi atteggiamenti di Trump ritenuti troppo conciliatori nei confronti di Mosca.
In aggiunta a questi elementi, bisogna analizzare un dato oggettivo. Il Congresso è un aggregatore di rappresentanti locali che sono stati eletti per la cura quasi esclusiva della propria comunità di riferimento. Per moltissimi di essi, la politica estera è semplicemente fuori dai radar. Ancor di più, per ovvie ragioni di esperienza, lo è per le new entries, ovvero proprio per quelle figure che in questi giorni fanno parlare gli analisti di “cambiamenti di equilibri” nel sistema politico americano.
Tale premessa serve a ribadire un dato oggettivo: difficilmente le elezioni di Midterm possono cambiare l’orientamento internazionale degli Stati Uniti. Ed ancora più difficilmente lo faranno queste ultime, caratterizzate da un dibattito politico soprattutto interno (o al massimo concentrato sull’immigrazione) e da un risultato elettorale che ha cambiato solo in misura limitata i rapporti di forza interni al Congresso.
La Russia resta il nemico per eccellenza per buona parte dei deputati di entrambe le sponde, i quali spesso non si fanno scrupoli nel promuovere nuove sanzioni o nel censurare certi atteggiamenti di Trump ritenuti troppo conciliatori nei confronti di Mosca.
Cupcake Ipsum, 2015
Dunque, se le elezioni di Midterm avranno un impatto limitato sulla politica estera di Washington, si dovrebbe presupporre che a loro volta pure gli altri Stati – Russia compresa – avranno un interesse limitato o comunque relativo nei riguardi di esse. Ma è davvero così?
Forse non del tutto, a detta degli stessi media statunitensi. Nelle settimane scorse, in America, le sirene su nuove intrusioni russe non sono di certo mancate. Secondo il New York Times, anche dietro le elezioni di Midterm ci sarebbe stata l’ombra dei troll russi. O almeno è quanto sostengono i procuratori federali statunitensi in riferimento a Elena Alekseevna Chusjajnova, accusata di essere vicina a Evgenij Prigožin (lo “chef di Putin”) e di aver orchestrato le manipolazioni russe sul voto a stelle e strisce.
Ad ogni modo, in questa tornata i troll russi non sembrerebbero essersi legati ad alcun candidato in particolare. Vuoi per la natura squisitamente locale della competizione (come ricordato sopra, la battaglia per i seggi al Congresso si consuma sulle issues delle comunità di appartenenza, più che sui temi di politica internazionale), vuoi per l’assenza di prospettive immediate su un cambio di rotta nelle relazioni bilaterali tra Mosca e Washington.
L’assenza, da parte russa, di candidati di riferimento (da appoggiare o da screditare) non equivale però all’assenza di una strategia.
Gli account sospetti non sono rimasti inattivi. A quanto sembra, essi non si sono limitati a sostenere una sola posizione nei dibattiti, ma hanno piuttosto sposato punti di vista estremi e divergenti in modo da incrementare la polarizzazione delle opinioni. Una manovra tesa a favorire la discordia e le divisioni all’interno del sistema politico USA, e dunque orientata ad un suo progressivo indebolimento (o meglio ancora, ad un ripiegamento su se stesso).
Il Congresso è un aggregatore di rappresentanti locali che sono stati eletti per la cura quasi esclusiva della propria comunità di riferimento. Per moltissimi di essi, la politica estera è semplicemente fuori dai radar.
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In tale prospettiva, per i russi, l’ultima tornata elettorale di Washington non ha assunto alcuna rilevanza eccezionale rispetto alle proprie strategie di lungo periodo. Una postura, testimoniata peraltro anche dalla scarsa copertura mediatica sulle Midterm, che però non deve ingannare sulla reale attenzione di Putin verso la Casa Bianca. Nessuno, a Mosca, vuole perdere Trump. Non perché il tycoon statunitense sia l’interlocutore ideale del Cremlino, bensì per il timore di ciò che può venire dopo. Anche se il rischio di impeachment, a detta degli esperti, appare remoto.
Escludendo (in parte) Trump, Putin sa bene che con gli altri apparati americani, Congresso in primis, è una battaglia persa. E dunque, se è già persa, perché parteciparvi in prima linea, tra l’altro esponendosi a nuove accuse? Ragioni che hanno portato Mosca ad una prudente diffidenza.
La Russia certamente non vedeva negativamente l’ipotesi di un rafforzamento della rappresentanza repubblicana al Congresso. Benché l’approccio del GOP nei confronti di Mosca sia stato negli ultimi anni quantomeno ondivago, non appare paragonabile all’attuale posizione dei Democratici. Addirittura, secondo alcuni osservatori, una vittoria netta avrebbe potuto spingere Trump a cacciare i suoi sodali più antirussi, come il segretario alla Difesa Mattis (le dimissioni di queste ore di Sessions, pur collegate ai rapporti con la Russia, sono da leggersi in altro modo). Ipotesi ottimistiche che però non potevano trovare riscontro nella realtà, ovvero nel corrente, generale ridimensionamento delle istanze pro Russia all’interno dell’amministrazione americana.
Specie oggi, dopo i risultati delle Midterm che hanno visto l’arrivo di una maggioranza democratica alla Camera. Nonostante l’estremizzazione del dibattito abbia giocato parzialmente in suo favore, Trump non potrà più permettersi di fare troppo l’incendiario. Anzi, alcuni segnali sembrerebbero indicare la strada di un compromesso coi rivali esterni (i Democratici) ed interni (i Neocon). Insomma, fumo negli occhi per Mosca.
Mentre a Washington ci si prepara già per la prossima tornata elettorale, quella del 2020 che deciderà le sorti dell’eventuale secondo mandato di Trump, in Russia certe preoccupazioni sono più immediate. L’uscita degli USA dal Trattato INF, le esercitazioni NATO in Europa, la complicazione degli scenari in Medio Oriente sono fatti che richiedono una risposta decisa (o almeno chiara) di Mosca, ma finora non si è visto molto.
L’attivismo internazionale di Putin, dal Mediterraneo alla Cina, tradisce in realtà un certo attendismo nei confronti dei rivali americani, almeno sulle questioni che più contano. La visita dei giorni scorsi di John Bolton a Mosca non è servita a rassicurare alcuno. L’11 novembre il bilaterale tra Putin e Trump potrebbe essere un incontro breve e secondario, dunque un certificato del declinante stallo (ossimoro, ma non troppo) delle relazioni russo-americane. Una notizia che, per il Cremlino, può essere anche peggiore di qualsiasi avanzata dei Democratici al Congresso.