È di ieri mattina la notizia di una sanguinosa rivolta in un carcere di massima sicurezza a Khujand, a circa 300 km a nord della capitale tagika, Dušanbe. Un detenuto radicalizzato e legato allo Stato Islamico avrebbe guidato una sollevazione, poi sanguinosamente repressa dalle forze antiterrorismo.
Le stragi e gli scontri armati iniziano a non far notizia, in un Paese che testimonia un progressivo scivolamento verso il caos. Disordini a cui il governo centrale sembra non essere in grado di porre un freno, ma che piuttosto contribuisce ad alimentare con le sue politiche autoritarie. Il sottile legame fra radicalismo e repressione politica, benché in generale non rappresenti una novità in molte nazioni a prevalenza islamica, è un fatto recente per il Tagikistan e per le repubbliche centroasiatiche. La disparità economica, la disoccupazione e l’alienazione religiosa rappresentano certamente fattori importanti che spiegano la crescita del fenomeno, ma l’Occidente continua a non comprenderne le cause, evitando di condannare la repressione politica e allo stesso tempo stendendo su di essa una coltre di assordante silenzio.
Il 29 luglio ha fatto molto scalpore la notizia di quattro ciclisti occidentali che hanno perso la vita in un attentato rivendicato dallo Stato Islamico nei pressi della località di Danghana, a sud della capitale. Tra di essi, una coppia di turisti americani impegnata in un eccezionale giro del mondo. Le vittime sarebbero state investite da un veicolo e successivamente colpite con oggetti contundenti da individui legati ad una presunta cellula jihadista. La rivendicazione dell’ISIS tramite un breve video rilasciato nell’etere non lascerebbe dubbi sulla provenienza e sulle motivazioni dell’atto, l’ennesimo tassello della sanguinosa lotta del Califfato contro l’Occidente.
Ma a far discutere è stata la reazione del governo. Il presidente tagiko Emomalī Rahmon, che regge i destini del Paese da oramai più di un ventennio, ha colto l’occasione propizia per accusare dell’attacco esponenti del rivale Partito della Rinascita Islamica (Irpt), un partito moderato che per anni è stato la maggior forza d’opposizione al suo governo. Il Tagikistan è reduce da una quinquennale guerra civile terminata appunto con una tregua tra i governativi e le forze islamiche. In virtù di un accordo per porre fine al conflitto, al Partito della Rinascita Islamica doveva essere destinato un terzo dei seggi al parlamento, ma la sua rappresentanza ha iniziato a erodersi velocemente sotto i colpi della repressione governativa e dello scarso supporto internazionale, fino alla definitiva sparizione avvenuta nel 2015.
L’Occidente continua a non comprendere le cause dei disordini, evitando di condannare la repressione politica e allo stesso tempo stendendo su di essa una coltre di assordante silenzio.
Cupcake Ipsum, 2015
Il presidente Rahmon ha saputo presentarsi all’opinione pubblica locale e internazionale come il salvatore del Tagikistan dal radicalismo islamico, promettendo un miracolo economico illusorio e un maggiore ruolo del Paese nel contesto internazionale. Il disciolto partito è diventato così lo spauracchio terroristico per ogni fallimento economico o atto di violenza, in un Paese dove la disoccupazione raggiunge livelli record e l’unica fonte di sostentamento per molte famiglie è rappresentata dalle cospicue rimesse degli oltre 400.000 tagiki che lavorano in Russia.
Il presidente ha adottato il pugno di ferro verso le istituzioni, i costumi e gli atteggiamenti islamici: vietate le barbe troppo lunghe (pena un ammenda e il taglio coatto), così come qualunque tipo di velo femminile; stop ai nomi arabi o estranei ai costumi nazionali; interdizione ai minori di 18 anni da ogni luogo di culto; chiusura di oltre 2000 moschee e centri di preghiera poi convertiti in sale da tè, ristoranti o edifici governativi. Le autorità regionali vengono costantemente incoraggiate a sorvegliare gli imam (sovvenzionati e preparati in accademie statali) e a compiere arresti indiscriminati, spesso di dissidenti, sotto il pretesto della minaccia jihadista. Ciò appare paradossale in una società post sovietica in cui certamente l’Islam sta vivendo un periodo di ascesa sociale e riscoperta, ma non aveva mai abbracciato precedentemente elementi di radicalismo e sovversione.
Il governo ha giustificato la repressione come necessaria, per far fronte alle influenze di predicatori stranieri ed evitare di diffondere la violenza dal vicino Xinjiang cinese e dall’Afghanistan. Ma il giro di vite sta ottenendo l’effetto contrario, spingendo centinaia di tagiki nella rete dello Stato Islamico sia in Siria che in patria. La soppressione dell’Irpt ha ulteriormente aggravato il fenomeno del radicalismo, in quanto son venute meno le reti di protezione e le strategie di contrasto al radicalismo che il partito operava nel paese: il movimento offriva un’alternativa islamista moderata al disordine ideologico post socialista, e la sua interdizione ha indebolito le già fragili speranze islamiche della popolazione. I membri dell’Irpt vengono costantemente additati come “terroristi” dal potere centrale e la maggior parte di loro è stata costretta a emigrare in nazioni come l’Austria o la Turchia, tra i pochi Stati collegati al Tagikistan da voli diretti. Il leader dell’Irpt, Muhiddin Kabiri – il cui nome è stato recentemente rimosso dalla lista dei ricercati internazionali dell’Interpol – è riuscito a trovare asilo politico in Germania, dove vive tuttora.
Un’immagine tratta dal video pubblicato dallo Stato Islamico che rappresenterebbe gli esecutori dell’attentato nei confronti della comitiva di ciclisti occidentali.
Le manie autocratiche del presidente hanno intaccato anche la già debole economia: il Paese, pressoché privo di risorse naturali e colpito da altissimi livelli di corruzione, potrebbe puntare sul turismo grazie ai suoi paesaggi e percorsi naturali mozzafiato, ma la recrudescenza e i disordini interni, uniti alla scarsità di infrastrutture, hanno costretto i tour operator a sconsigliare la visita agli occidentali.
I fallimenti della strategia Rahmon sembrano infine ripercuotersi anche all’interno delle forze armate, punta di diamante della strategia repressiva del governo. Risale al 2015 la defezione di Gulmurod Khalimov, capo della polizia antisommossa tagika. Il militare, scontento nei confronti delle politiche governative sull’Islam, è fuggito in Siria per unirsi alle truppe del Califfato, finendo per diventare un apprezzato “ministro della guerra”; ennesimo campanello di allarme inascoltato. Le minacce per il Paese sembrano provenire non solo dalla difficile situazione interna, ma dalle porose frontiere meridionali con l’Afghanistan in cui è in atto una recrudescenza talebana. E dove l’ISIS, presente tramite l’associato Wilāyat Khurāsān, ha iniziato a prendere piede sulle montagne dell’Hindu Kush inaugurando una scia di sangue e attentati contro le forze armate e i talebani stessi. Le guardie di frontiera sarebbero troppo poche oltre che scarsamente addestrate per prevenire una possibile infiltrazione, mentre proseguono indisturbati, come nel caso del Turkmenistan, i lucrosi traffici di droga e contrabbando.
Questi elementi contribuiscono a dipingere un futuro sempre più a tinte fosche per il Paese: il gap fra città e campagne immiserite aumenta, la speranza di vita rimane drammaticamente bassa mentre l’immigrazione in Russia e in Europa sembra rappresentare l’unica alternativa per un lavoro e un futuro dignitoso per tanti giovani uomini e donne. La sfiducia nei confronti della politica e dell’alternativa democratica si indebolisce giorno dopo giorno, e mentre il presidente Rahmon prepara la successione del figlio Rustam (sindaco della capitale e maggior generale dell’esercito), la soppressione del pensiero critico e degli intellettuali liberali porta al predominio di “gruppi arcaici”. I quali fornirebbero “una falsa stabilità a breve termine, mentre provocano il degrado dell’economia, della politica e dell’istruzione“, come ha dichiarato ad Al Jazeera Rafael M. Sattarov, esperto di Tagikistan della George Washington University.
Foriera di speranza, infine, un’iniziativa figlia della cooperazione russo – tagika che non si limita solamente all’ambito securitario, ma spazia fra istruzione e sovvenzionamento a necessarie opere pubbliche. Recentemente colpita dall’attentato nella metropolitana di San Pietroburgo, compiuto da un cittadino centroasiatico, la Russia ha infatti manifestato viva preoccupazione verso la recrudescenza del fenomeno terroristico nel Paese, e oltre a rafforzarvi la sua presenza militare ha dato vita ad un ambizioso programma, teso all’invio di un centinaio di insegnanti russi al fine di rafforzare il sistema scolastico locale affetto da macroscopiche falle. Gli insegnanti, tutti volontari, riceveranno un salario molto maggiore della media tramite un finanziamento congiunto dei due Paesi, attirando così nuovi educatori da ogni angolo della Russia.
Questa strategia di soft power è stata pensata, dai russi, per raggiungere un duplice obiettivo: da un lato, quello di aumentare l’educazione e la preparazione tecnica degli studenti (molti dei quali sceglieranno la strada dell’emigrazione verso Mosca e dintorni); dall’altro, quello di incrementare la conoscenza della lingua russa in un Paese che spesso cerca di evitare l’influenza del Cremlino. Un piccolo segnale di speranza che evidenzia la necessità dell’impegno internazionale, al fine di combattere la radicalizzazione e la diffusione di sentimenti estremisti.