Nel 2002 Harrison Ford e Liam Neeson interpretarono due ufficiali sovietici in uno dei film più ambiziosi della cinematografia indipendente. L’obiettivo fu quello di raccontare una storia di eroismo e abnegazione sepolta in un consapevole oblio per più di 30 anni. I momenti fatidici in cui un pugno di coraggiosi marinai sovietici scongiurarono una catastrofe operando all’interno di uno dei sottomarini orgoglio della marina sovietica impegnata allora nel confronto con gli Stati Uniti.
Una carriera, quella del K-19, concepita con l’obiettivo propagandistico di dimostrare all’alleanza occidentale la potenza, la proiezione strategica e la capacità dei natanti prodotti negli arsenali di Mosca. Parimenti alla vicenda ben più nota e tragica del sottomarino Kursk (118 membri dell’equipaggio vittima di un incidente al largo del Mare di Barents nell’agosto del 2000), l’incidente ha sottolineato, e continua tuttora nella storiografia navale, le deficienze tecniche ed economiche e l’assoluta indifferenza nei confronti della sorte dei soldati sovietici sia nel momento della tragedia che in seguito.
L’urgenza di costruire e armare un’unità che potesse fregiarsi dell’onore di essere il primo sottomarino a trasportare i temibili missili nucleari balistici è costata la vita a svariate decine di operai, ufficiali e professionisti nel corso della sua lunga carriera, che spazia dall’8 aprile 1959 (anno del varo) al fatidico 1991, anno di dissoluzione dell’Unione Sovietica e della dismissione del sottomarino conosciuto ormai con il triste soprannome di “Widowmaker”.
La corsa agli armamenti dell’Unione Sovietica
Alla fine della seconda guerra mondiale e con l’inizio delle ostilità con gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, fortemente indebolita dalle perdite militari e civili, diede inizio ad un poderoso programma di rifacimento e aggiornamento delle proprie forze armate, privilegiando la marina, cercando di sfidare il predominio delle flotte americane in grado di controllare tutte le principali vie commerciali e strategiche lungo gli Oceani.
Il devastante impiego della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki aveva inaugurato un fronte di competizione bilaterale potenzialmente distruttivo: bisognava sviluppare un paniere atomico altrettanto temibile e duttile in grado di minacciare o perlomeno competere con la proiezione geopolitica di Washington. Il 29 agosto 1949, nel poligono kazako di Semipalatinsk, avvenne l’esplosione della prima bomba atomica sovietica, seguita dalla ben più potente “Bomba Zar” nel 1961. I sovietici avevano allestito un armamento di tutto rispetto ma sviluppare missili intercontinentali e sottomarini appariva allora complementare allo sviluppo di una credibile deterrenza.
La progettazione di un natante tecnologicamente all’avanguardia e in grado di rivaleggiare con le marine occidentali incontrò diversi ostacoli di tipo strutturale ed economico che tuttavia non rallentarono la frenetica corsa agli armamenti: la competizione bipolare e il predominio sugli avversari valeva la sofferenza di milioni di cittadini sovietici ostaggio dei sogni di dominio della nomenklatura. Il sottomarino K-19 (primo esemplare della classe Project 658) iniziò a costruirsi la propria fama sfortunata già nel corso dei lavori di costruzione, in quanto diversi operai e ingegneri persero la vita in diversi incidenti frutto della scarsa considerazione degli standard di sicurezza sul lavoro e degli obsoleti cantieri navali dell’Artico.
Tuttavia, a presagire la futura sorte del sottomarino fu soprattutto il tentativo di varo della nave: la bottiglia di champagne destinata a infrangersi sulla chiglia del sommergibile (tradizione comune a tutte le superstiziose marine mondiali) non solo non si infranse ma fini per rimbalzare sullo scafo; non certo un segnale di buon auspicio. La fretta e i deficit della fabbricazione iniziarono a farsi notare già nelle prime missioni al largo del Mar Artico: funzionamenti impropri del reattore, rifacimento del rivestimento in gomma danneggiato nel corso di un immersione prolungata, inondazioni nel compartimento del reattore oltre che alla cronica penuria di pezzi di ricambio e generi di prima necessità. Svariate volte il natante fu costretto a ritornare a Severodvinsk e subire continui e onerosi rifacimenti e riparazioni che non riuscirono però a impedire il disastro del 1961.
Il tragico incidente
Ai primi di luglio del 1961, sotto il comando del Capitano di Primo Grado Nikolaj Zateev, il K-19 stava conducendo le esercitazioni nel Nord Atlantico al largo della costa sud-orientale della Groenlandia, nei pressi dell’isola norvegese di Jan Mayen, quando avvenne l’irreparabile: un’avaria al reattore di poppa. La conseguenza fu un riscaldamento del nocciolo che avrebbe potuto facilmente portare a un irreversibile processo di fusione con la conseguente esplosione dei due reattori con annesse testate atomiche ivi montate. Il malfunzionamento di un sistema di emergenza che avrebbe operato nel raffreddare i reattori rese ancora più grave una situazione che ai più appariva irrimediabile.
L’impossibilità di comunicare con il quartiere generale (i sistemi atti a tale scopo erano altresì danneggiati) costrinse il capitano a una scelta coraggiosa e allo stesso tempo potenzialmente suicida: fabbricare un nuovo sistema di refrigerazione tagliando una valvola di sfiato e saldando un tubo di alimentazione dell’acqua esponendo però l’equipaggio a dosi elevatissime di radiazioni in mancanza di efficaci strumenti di protezione. Il capitano Zateev dimostrò una leadership e un’abnegazione incrollabile dirigendo i lavori di manutenzione in una situazione di forte tensione emotiva rifiutando, dopo un iniziale tentennamento, l’assistenza di un’imbarcazione americana, risoluto nel non rischiare di cedere in tal modo tecnologie segrete agli arcinemici.
L’operazione fu un successo, riuscendo a stabilizzare i reattori per poi evacuare l’equipaggio tramite una sopraggiunta imbarcazionesovietica. Così, il K19 venne condotto nel porto di Severodvinsk, dove i reattori furono finalmente rimossi e isolati. L’incidente venne impuntato ad un’inefficiente opera di saldatura lungo il sistema di raffreddamento primario, ma nel corso degli anni diversi esperti e storici hanno improvvisato altre cause del disastro arrivando a incolpare la dirigenza sovietica di una volontaria trascuratezza nella costruzione dei dispositivi di emergenza, volendo cosi testare la qualità dei propri natanti e degli equipaggi.
Giunto in Russia l’intero equipaggio, e primo fra tutti il comandante Zateev, sospettato di tradimento, fu sottoposto a processo, ma fu assolto grazie alla testimonianza del comandante in seconda Polenin e a quella del resto dell’equipaggio, ma Zateev non comandò più unità sottomarine né di superficie. La vicenda venne velocemente insabbiata come un banale incidente di routine, minacciando l’equipaggio e i testimoni di pene molto severe in caso di rottura del segreto di Stato.
L’infausta sorte dei marinai
In tutto furono 22 i morti nel tragico incidente: 8 nei giorni successivi alla tragedia fra coloro che avevano operato in prossimità del reattore, mentre altri 14 persero la vita nel corso di settimane o anni successivi per avvelenamento da radiazione. Il sottomarino venne riparato e ritornò tranquillamente a operare con il nuovo soprannome di “Hiroshima”, mentre oggi giace in stato di semiabbandono nei cantieri navali di Murmansk.
Nessun concittadino dei marinai del K – 19 poté venire a conoscenza della vicenda e delle sofferenze affrontate da quei coraggiosi marinai, sia per l’efficace censura mediatica delle autorità sia per la scarsità di informazioni in grado di filtrare da oltre la cortina di ferro. Solo con la caduta dell’Unione Sovietica questo episodio poté venire alla luce per restituire giustizia e meritata fama a chi ha sventato un possibile disastro nucleare e nel frattempo coprire ulteriormente di disonore chi follemente ha condotto un sottomarino progettato troppo in fretta e peggio assemblato (nel 1969 e nel 1972 uno scontro con un sottomarino americano e un incendio funestarono ulteriormente la sorte dello sfortunato natante) nella mani di cosi valenti marinai.
Oggi la vicenda dell’equipaggio è ben conosciuta in Russia e nel resto del mondo, grazie sia al film sopracitato sia ad un’opera di letteratura critica semiufficiale del romanziere Vasilij Aksënov. In ultimo non si può non segnalare l’interesse dell’ex presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv il quale, nel febbraio del 2006, propose, tramite una lettera al comitato norvegese del Nobel, proprio l’equipaggio come possibile destinatario del premio della Pace per le loro azioni. L’ennesimo corollario agli sforzi di distensione e riparazione agli orrori e ai crimini compiuti dai suoi predecessori alla guida dello Stato sovietico.