Soft power è un termine utilizzato nella teoria della relazioni internazionali per descrivere l’abilità di un potere politico di persuadere, convincere, attrarre e cooptare tramite risorse intangibili come “cultura, valori e istituzioni della politica”.
Il termine soft power è stato coniato negli anni Novanta dal politologo statunitense Joseph S. Nye Jr. della Harvard Kennedy School of Government. Nye credeva fermamente infatti che gli Stati Uniti d’America potessero riuscire a cooptare gli altri attori globali nell’ordine liberale internazionale attraverso una promozione dei loro valori, la quale avrebbe migliorato l’immagine di Washington nel mondo e quindi le sue possibilità di riuscire ad influire (anche in maniera abbastanza economica) in maniera più incisiva sugli scenari globali.
Ad oggi il soft power tuttavia non è una prerogativa eminentemente americana: anche la Russia, erede dell’ex URSS nonché nemico storico degli USA durante la Guerra fredda, è interessata ad un impiego di questa dottrina per volgere a suo favore le politiche estere, economiche e interne di molti Paesi. Scioltosi il PCUS e collassata l’Unione Sovietica, Mosca aveva perso l’appeal ideologico che sommato alla potenza economico-militare rendevano il Paese oltreché una superpotenza un attore ideologico di primo piano in grado di influenzare la politica internazionale e quella interna di molti Paesi (vedasi i forti partiti comunisti di Italia e Francia in Occidente). La nuova Federazione Russa di Boris El’cin decise pertanto di rispolverare come strumento di influenza verso altri Paesi il panslavismo che fu degli Zar. Il nuovo presidente russo provò infatti a rafforzare la CSI (seppur senza successo) e rilanciò gli storici legami con Belgrado mentre per nei primissimi anni Novanta i nazionalisti russi e quelli ucraini trovarono una convergenza per favorire l’elemento secessionista slavo della Transnistria contro il governo moldavo filorumeno. Nonostante le notevoli debolezze economiche, inoltre, la nuova Federazione Russa iniziò sin da subito a farsi portavoce dei diritti delle minoranze russe all’estero, specie laddove esse erano fortemente minacciate (come nel Baltico).
Sarà tuttavia con Putin e con una Russia più forte grazie alla grande crescita economica del periodo 2000-2014, che la linea degli anni Novanta verrà intensificata e raggiungerà i suoi più grandi successi. Il Presidente russo infatti sin dall’inizio del suo mandato non ha mai fatto mistero di considerare le consistenti minoranze russe e russofone nello spazio post sovietico come parte integrante del mondo russo. Si è pertanto fatto portavoce delle minoranze russe nel Baltico condannando il nazionalismo di Estonia, Lettonia e Lituania, ma soprattutto ha potenziato i media russi affinché questi potessero raggiungere i russofoni fuori dalla Russia, residenti in particolar modo nelle ex repubbliche sovietiche. Sono poi state compiute delle pressioni affinché i paesi vicini non degradassero lo status della lingua russa nei loro confini e numerose condanne sono partite da Mosca negli anni verso la de-russificazione attuata in Paesi come l’Ucraina (che l’ha perseguita anche prima di Maidan).
Sono poi state compiute delle pressioni affinché i paesi vicini non degradassero lo status della lingua russa nei loro confini e numerose condanne sono partite da Mosca negli anni verso la de-russificazione attuata in Paesi come l’Ucraina
Cupcake Ipsum, 2015
La Federazione Russa e Putin si sono voluti quindi ritagliare il prestigioso ruolo di protettori del mondo russo (russkij mir) anche al di fuori dei confini nazionali, per aumentare il peso di Mosca nel globo. Tra i Paesi slavi la Russia post comunista è riuscita poi a creare una special relationship con la Serbia, ma anche coi nazionalisti slavo-macedoni e quelli serbo-bosniaci. L’auspicio era quello di coltivare lo storico interesse russo nei Balcani, appoggiando i suoi beniamini (di carattere nazionalista) sia all’interno dei propri Paesi, sia in politica estera in funzione antieuropeista e antiatlantista.
Il Cremlino, sotto Putin, ha poi stretto un forte sodalizio con il Patriarcato di Mosca, alleanza utile affinché entrambi i poteri si legittimino e rafforzino reciprocamente sia internamente che esternamente. La Russia infatti appoggia il Patriarcato affinché questo possa contribuire a rafforzare una immagine positiva dei legami con Mosca nella regione e aumentare anche l’importanza religiosa del Paese. In quest’ottica si possono ben capire le altissime tensioni circa l’autocefalia che Costantinopoli ha concesso a Kiev. Negli ultimi anni, a seguito dell’intervento russo in Siria, i cristiani mediorientali hanno iniziato a vedere in Mosca il loro naturale protettore contro gli islamisti a causa del fondamentale ruolo russo nel salvataggio del regime laico di Assad. Interessanti poi anche i rapporti con le autorità palestinesi che hanno portato il Cremlino a finanziare la ricostruzione e il restauro di Chiese nei territori. La carta della protezione dei cristiani mediorientali consente poi alla Russia di presentarsi come un attore benevolo anche in Occidente fra sempre più credenti e conservatori, mentre allo stesso tempo rafforza i legami con un attore globale di primo piano come il Vaticano.
La nuova Russia post comunista non si sta mostrando così innovativa nel ricreare il suo soft power, data la sua propensione ad attingere alla sua lunga storia. Da secoli infatti la Russia cerca di creare legami coi vari nazionalismi slavi (specialmente balcanici) e prova a diventare il Paese protettore delle Chiese orientali. Ma la strada è impervia e Mosca oggi dovrà fare i conti, oltre che con la mancata unità della Chiesa ortodossa, anche con l’emergere di altri soft power, fomentati proprio da quei nazionalismi con cui la stessa Russia si è trovata spesso in sintonia ideologica. È il caso dell’Europa orientale, nella quale sempre più Paesi rifiutano l’adesione al modello russo in virtù della ricerca di una propria specificità nazionale. La battaglia per l’influenza si preannuncia dura e senza esclusione di colpi.
Samuele Mosconi