È ormai noto che il sistema mediatico agisca come un filtro, selezionando le notizie rilevanti in base alla loro portata sensazionalistica e perdendo di vista la loro veridicità o la loro contestualizzazione. La Russia, così come tutti i soggetti stereotipati, si presta benissimo a questi meccanismi. E ancora di più vi si presta Putin, in modo probabilmente ormai consapevole, durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno.
Così, le risposte ai giornalisti presenti si sono trasformate – a torto o a ragione – in titoli da prima pagina per la stampa di mezzo mondo. Il presidente russo ha infatti commentato positivamente l’annuncio di Trump relativo ad un prossimo (e immediato) disimpegno delle truppe americane dalla Siria, e in un altro momento ha messo in guardia l’Occidente da un riarmo che potrebbe costare una guerra nucleare globale.
Due affermazioni apparentemente contraddittorie, almeno nei toni, ma che hanno ugualmente alimentato le paranoie su una Russia espansionista (in Siria) o aggressiva (in Europa e nel mondo). Senza entrare nei giudizi politici e di opportunità, occorre un attimo ristabilire un po’ di ordine tra queste dichiarazioni, per capire cosa ci sia dietro.
Partiamo dalla prima, quella sulla Siria. Qui apparentemente non c’è moltissimo da spiegare, anche il lettore di giornali meno attento si renderà conto che il ritiro americano può costituire un vantaggio per la controparte russa. Ed in effetti è vero, almeno in parte: benché la presenza americana in Siria sia stata tutto sommato limitata e inferiore rispetto alle forze militari di altri Paesi, il suo contributo nella sconfitta dello Stato Islamico è stato importante. Dunque, anche solo in termini di propaganda, la paternità della “vittoria” (ma attenzione a parlarne in termini definitivi) è rimasta scomodamente contesa tra le due ex superpotenze, e l’uscita di una delle due dal teatro bellico non potrebbe che favorire l’altra. Specie se quest’ultima, ovvero la Russia, ha fatto della propria presenza in Siria un manifesto per un nuovo ordine mediorientale, nelle intenzioni (dichiarate) distante dalle contraddizioni e dalle ingiustizie perpetrate durante il dominio di Washington nella regione.
L’altra faccia della medaglia, in realtà, non sorride così tanto ai russi. Se le dichiarazioni di Trump dovessero corrispondere alla realtà, significherebbe che Washington ha appreso la lezione irachena: uscire dal pantano prima che sia troppo tardi, prendendosi gli onori ma non certo gli oneri. Oneri che, inevitabilmente, resterebbero in capo a Mosca, costretta a fare i conti con la ricostruzione e con una probabile futura nuova insorgenza del terrorismo.
Inoltre, la presenza americana non era poi così ingombrante per Mosca. Attestata ad est dell’Eufrate, e con ogni cura distanziata dai militari russi per prevenire rischiosi scontri o anche solo sovrapposizioni operative, il contingente statunitense non rappresentava di certo un pericolo così rilevante per l’ordine costituito da Mosca e Damasco. Un ordine paradossalmente più minacciato dal pesante impegno iraniano nel Paese, in termini sia umani che militari; per tacere dell’occupazione e delle giravolte turche, o degli ambigui interventi israeliani, già costati la vita ad alcuni soldati russi appena tre mesi fa. Alla fine di questo 2018, la presenza a stelle e strisce rappresentava quindi uno degli ultimi problemi siriani, per il Cremlino.
In ogni caso, Putin non si è lasciato sfuggire l’occasione per una stoccata verso il suo omologo Trump: “Per quanto riguarda il ritiro delle truppe statunitensi, non capisco davvero di cosa si tratta, perché gli Stati Uniti sono stati presenti per circa 17 anni in Afghanistan”, ha detto. “Stanno (gli Stati Uniti) ancora parlando di ritirarli, ma non l’hanno ancora fatto”.
Un’accusa che, a onor del vero, può essere rimbalzata sullo stesso Putin, reo di aver annunciato con troppo anticipo (e per ben due volte) il ritiro dei soldati russi dalla Siria. Certo, sono passati ancora solo tre anni dall’inizio dell’intervento russo in Siria (anziché diciassette), ma i bisogni comunicativi dietro gli annunci di questo genere sono sempre gli stessi. Tutto il mondo è paese.
“Per quanto riguarda il ritiro delle truppe statunitensi, non capisco davvero di cosa si tratta, perché gli Stati Uniti sono stati presenti per circa 17 anni in Afghanistan. Stanno (gli Stati Uniti) ancora parlando di ritirarli, ma non l’hanno ancora fatto”.
Vladimir Putin
Andiamo alla seconda dichiarazione, quella che ha destato più scalpore. Putin ha evocato senza troppi giri di parole la possibilità di una terza guerra mondiale, o peggio, di un olocausto nucleare riconducibile alla MAD (Mutually Assured Destruction) teorizzata durante la Guerra fredda.
Parole forti che hanno un duplice scopo. Da un lato, quello di tenere alta l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica globale sulle possibili conseguenze della fine del Trattato INF: Mosca non può permettersi il rischio che il tema finisca relegato nell’ombra, e allo stesso tempo vuole ricordare a tutti la paternità statunitense della decisione di ripristinare i missili.
Dall’altra parte, la Russia vuole lanciare un segnale all’Europa, pur conscia del fatto che questo verrà difficilmente ascoltato: un’escalation nucleare avrebbe il nostro continente come prima vittima, ed è dunque nell’interesse di tutti i suoi membri (in particolare quelli aderenti alla NATO) convincere Trump a tornare sui suoi passi. Fino ad ora in Europa la questione è rimasta relativamente in sordina, o si è posta solo nei termini di una possibile aggressione russa. Appare improbabile che un approccio come quello tenuto dal presidente russo durante la conferenza stampa possa invertire la percezione. Eppure Putin ci prova lo stesso, probabilmente nella convinzione di non avere altre armi efficaci a sua disposizione.
Un comune errore è quello di equiparare il tono di un discorso alla portata dei suoi contenuti. Secondo tale schema l’evocazione di una guerra distruttiva, da parte di Putin, corrisponderebbe ad una sua volontà di perseguirla o quantomeno ad una minaccia esplicita di aggressione verso altri Paesi. Tutte le analisi della postura strategica russa, in verità, sostengono l’esatto opposto: la Russia è sulla difensiva, subisce passivamente le iniziative statunitensi e non ha l’intenzione (né i mezzi) di iniziare per prima un’offensiva verso altri Stati che non siano quelli in cui essa si trova già coinvolta. Il Cremlino cerca di compensare queste carenze con un’assertività ritrovata (soprattutto in Medio Oriente), con una buona gestione tattica degli eventi e persino con la fama e il soft power personale di Putin.
La passività della Russia non significa che quest’ultima manchi di reattività: si è visto in Ucraina, in Georgia e si vedrà ancora in altri Paesi, laddove gli interessi di Mosca verranno platealmente calpestati. All’Europa spetta il compito di interpretare non tanto gli umori, bensì i messaggi che giungono ripetutamente dal Cremlino. Finché della Russia si avrà una lettura sensazionalistica, l’impresa non sarà facile.