Domenica 24 febbraio si è votato in Moldavia per rinnovare il Parlamento di Chisinau. Un’elezione particolarmente rilevante per il destino della piccola repubblica, che avrebbe dovuto definire il percorso futuro del Paese. Avrebbe, perché in realtà i risultati non hanno mosso sensibilmente l’ago della bilancia, né in favore dei partiti filorussi, né di quelli pro-Europa. È questa la grande sfida che riguarda i moldavi: puntare con forza sul futuro europeo o guardare sempre più verso il Cremlino?
Per ora, come la tornata elettorale ha confermato, vince l’indecisione. Infatti, ad oggi Chisinau ha compiuto passi bilanciati, tanto in una direzione quanto nell’altra. Dal 2014, dopo la firma dell’accordo di Associazione Moldavia-UE, i rapporti con Mosca si sono piuttosto deteriorati. Dopo l’embargo russo su alcune merci, Chisinau ha puntato con decisione sul mercato europeo, verso cui sono dirette oltre il 70% delle proprie esportazioni. Come conferma anche il Ministero degli Esteri russo, l’export verso la Federazione si riduce al 26% [forse la metà, secondo CIA World Factbook], mentre gli investimenti di Mosca costituirebbero il 22% di quelli esteri nel Paese.
Ma il settore in cui il Cremlino tiene le redini è, come in molti altri casi, quello energetico. La Moldavia è quasi interamente dipendente dalle forniture di gas russo. Il gasdotto Ungheni-Iasi, che collega il Paese alla Romania, trasporta un volume di gas piuttosto simbolico; circa il 90-95% della materia prima proviene da Mosca. I debiti cumulati nei confronti di Gazprom rappresentano una notevole spina nel fianco per le prospettive europee di Chisinau, che deve fare i conti anche la questione Transnistria. La piccola striscia di terra tra Moldavia ed Ucraina, autoproclamatasi indipendente dal governo centrale, è fortemente legata ai sussidi economici che arrivano dalla Russia. Ma l’evoluzione degli equilibri potrebbe portare ad un punto di svolta.
Come sostiene Denis Cenusa, dal 2013 la regione separatista si trova costretta ad operare un contesto molto “europeizzato”, dettato proprio dalla liberalizzazione degli scambi tra Moldavia e UE, che a loro volta sono economicamente vantaggiosi per la stessa Transnistria. Per questo Tiraspol [Capitale de facto] ha accettato di allinearsi gradualmente a una serie di norme UE. Inoltre, la regione deve prestare attenzione alle attuali dinamiche politiche e di sicurezza della vicina Ucraina. Le riforme anticorruzione e le misure antirusse di Kiev pongono la popolazione e le attività transnistriane sotto alcune restrizioni, indebolendo il legame con Mosca.
Lo storico sostegno del Cremlino alle istanze separatiste di Tiraspol ha comunque alimentato l’ennesimo frozen conflict nello spazio post-sovietico, che Mosca può gestire a proprio favore. Come brillantemente sottolineato da Sergej Markedonov, la Russia non ha una strategia definita e immutabile in queste situazioni, quanto piuttosto pragmatica e adattabile. Fare leva sui riconoscimenti de facto consente al Cremlino di distendere o esacerbare i rapporti con i vicini e, indirettamente, con l’Europa. In merito alla Transnistria, Markedonov sostiene che Mosca è costretta a mantenere un approccio particolarmente sensibile, sia per l’assenza di confini comuni – a differenza di Abcasia, Ossezia del Sud, Donbass – sia per le forti aspirazioni europeiste dell’élite moldava, in parte indotte proprio dall’embargo russo. Allo stesso tempo però, il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha definito quali possibili scenari (l’adesione della Moldavia alla NATO, che non fa parte dell’agenda politica del paese, e la sua unificazione con la Romania) sarebbero decisivi nel convincere Mosca a riproporre lo scenario abcaso e ad accelerare il processo di riconoscimento della Transnistria.
A questo proposito, le elezioni di domenica scorsa rappresentavano l’occasione per i politici transnistriani di accedere al Parlamento di Chisinau. In seguito alla riforma elettorale del 2017, 50 su 101 seggi del legislativo vengono assegnati su base proporzionale, mentre i rimanenti 51 sono decisi all’interno dei collegi elettorali uninominali. Di questi, due sono stati designati per la regione separatista. La risposta dell’elettorato è stata piuttosto scarsa. In questi due collegi (n. 47 e 48), circa 37.000 votanti sui 225.000 totali registrati nel database elettorale si sono recati alle urne. La partecipazione totale in Transnistria si è fermata al 16%.
Tra le proposte dei partiti politici moldavi sulla questione separatista, spicca l’idea della federalizzazione sostenuta dal Presidente socialista Igor Dodon. Il Capo dello Stato ha già espresso più volte la volontà di trovare una soluzione politica a tutti i costi già nel prossimo biennio, proponendo anche un referendum per la risoluzione del conflitto in caso di successo socialista. Risultati alla mano, la vittoria c’è stata, ma solo nei numeri.
Al termine dello spoglio, i Socialisti (PSRM) del presidente Dodon (sostenitore dell’avvicinamento a Mosca) sono il primo partito, raccogliendo il 31,15%. I principali sfidanti, con aspirazione euro-occidentali, sono il Partito Democratico (PD) del Premier Pavel Filip ed il movimento ACUM, che hanno raggiunto rispettivamente il 23,62% e il 26,84%. I conservatori pro-Russia si sono fermati al 8,32%. Seguono altre 11 formazioni politiche, tutte sotto la soglia del 6%. L’affluenza si è attestata sul 49,5%, la più bassa registrata dall’indipendenza nel 1991.
La maggioranza, quindi, non è chiaramente definita e, probabilmente, difficilmente lo sarà nelle prossime settimane. I parlamentari avranno 45 giorni di tempo per esprimere un Governo, dopodiché il presidente Dodon dovrà sciogliere l’assemblea e indire nuove elezioni. Si prevedono settimane tese, così come lo è stata la campagna elettorale. Permane quindi lo stallo, in cui la Moldavia sembra ormai barcamenarsi da quasi un decennio e in cui si inseriscono i numerosi problemi del Paese più povero d’Europa.