La crisi in Venezuela è piombata improvvisamente sulle prime pagine dei notiziari e dei media internazionali. L’autoproclamazione del presidente dell’Assemblea e dissidente antichavista Juan Guaidò, contestante l’autorità di Nicolas Maduro, rappresenta il colpo di coda di un’opposizione divisa e intimorita dalla repressione governativa, ma determinata a reagire. La dichiarazione di Guaidò ha convinto le cancellerie del mondo a prendere una posizione nella crisi sostenendo o no un governo ad interim, che si ritiene capace di creare un’alternativa alla parabola discendente del sogno bolivariano. Stati Uniti, Unione Europea (tralasciando l’indecisione italiana) e il blocco dei Paesi sudamericani riuniti nel gruppo di Lima hanno preso immediatamente le parti di Guaidò, dichiarando la propria volontà nell’isolare diplomaticamente il comando socialista, non escludendo persino la possibilità di un intervento armato. Solo pochi Paesi (Cina, Turchia, Cuba, Bolivia) hanno preso immediatamente le posizioni di Maduro, condannando il presunto golpe. Tra questi, la posizione russa ha suscitato più scalpore e discussione tra gli analisti e l’opinione pubblica mondiale. Quali sono i motivi che hanno portato Mosca a sostenere il Venezuela, in passato come oggi? E quali sono le prospettive di questa relazione, che si inserisce pienamente nell’ambizioso progetto multipolare portato avanti dalla leadership del Cremlino?
Rompendo gli schemi di una narrativa che inquadra Mosca dietro ogni processo di sostegno a governi avversi all’influenza occidentale, bisogna considerare che non è la Russia, ma la Cina il principale partner del governo chavista. Caracas ha infatti accumulato insolvenze per 70 miliardi $ nei confronti di Pechino, corroborando così la strategia del debito portata avanti dal dragone con spietata efficacia in Africa. Gli interessi della Russia in Venezuela hanno radici profonde nella storia e nell’eccezionalità di una rivoluzione, quella bolivariana, che si pone in antitesi profonda all’intrusione secolare degli Stati Uniti nel riottoso “cortile di casa” latino. Non basta evocare il potenziale petrolifero di Caracas (prima al mondo per riserve, superando persino l’Arabia Saudita), ma ha un innegabile peso anche la geografia (la Florida non è poi così distante) in uno scontro Usa-Russia che si presenta strutturale e di difficile risoluzione. Il Cremlino, consapevole delle proprie fragilità, si muove nello scenario globale piazzando pedine alla ricerca di convergenze, opportunità o vuoti, lasciati dal passato unipolare americano in Medio Oriente e America Latina. Il sostegno diplomatico, militare e commerciale al Venezuela non è frutto della personale simpatia tra Putin e Maduro, ma prosegue in crescendo dall’era Chavez, seguendo binari militari e affaristici.
Per quanto manchino cifre precise, il valore dell’investimento russo in Venezuela si attesterebbe sulla ragguardevole somma di 20 miliardi $, spalmati tra sovvenzioni, contributi allo sviluppo e vendita di armamenti, accumulando così crediti per 3,2 miliardi $ in debito sovrano. Il colosso russo dell’energia Rosneft, a partecipazione statale, gioca un importante ruolo nel processo di estrazione e produzione del petrolio venezuelano, contribuendo a fornire il know-how. L’offensiva commerciale delle aziende russe (l’8% dell’intero processo di estrazione e trasformazione del petrolio venezuelano è in mano a joint-venture a partecipazione russa) ha creato una parziale dipendenza mutuale che rischia di trasformarsi in un buco nero per Mosca, di cui i primi segnali non faticano a vedersi. Ad agosto 2018, la società statale venezuelana del petrolio (PDVSA) ha dimezzato le esportazioni di petrolio concesse a Mosca come risarcimento, allarmando gli investitori russi. Le parole del ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, che ha definito le sanzioni statunitensi contro la PDVSA “illegali” in quanto “violano il diritto internazionale e interferiscono nell’attività economica delle compagnie che operano in Venezuela” sono sintomatiche della situazione di incertezza e frustrazione del comparto affaristico russo, sostanzialmente a conoscenza della rischiosa incognita venezuelana, ma poco disposto ad ascoltare le critiche degli analisti. Nel 2014, Rosneft ha versato 4 miliardi $ di pagamenti anticipati a PDVSA in cambio di future consegne di petrolio; nel 2016-17, la compagnia russa ha aggiunto altri 2,5 miliardi $ al totale. La PDVSA ha fornito a Rosneft petrolio per $ 1,9 miliardi rispetto ai prestiti nel 2017, secondo la compagnia russa, e ha tagliato il capitale in circolazione di ulteriori $ 1,5 miliardi nei primi nove mesi del 2018. Gli analisti stimano che il totale attualmente in circolazione sia circa 2,5 miliardi $. L’investimento di Rosneft nel Paese sudamericano non è solo business, ma anche frutto dell’interesse personale di Igor Sechin, amministratore delegato della compagnia, fidatissimo di Putin e figura chiave nel patrocinare le relazioni diplomatiche tra le due sponde dell’oceano. Personaggio eccentrico con un passato nel KGB, gode di grande considerazione in molte cancellerie dell’America Latina. Ha più volte in passato espresso pareri positivi nei confronti della rivoluzione bolivariana, tutelando i rapporti amichevoli in chiave antiamericana, ma con un occhio di riguardo per le opportunità commerciali. Fiore all’occhiello del potere detenuto da Rosneft in Venezuela è stata l’acquisizione nel 2016 del 49,9% della proprietà dell’unità di raffinazione di PDVSA, Citgo, recentemente finita tra gli obiettivi della sanzioni statunitensi.
Molto importanti anche gli accordi commerciali nel settore della difesa e degli armamenti. Il Venezuela acquista tecnologie russe, inaugura stabilimenti industriali per la produzione in serie di armamenti e apre linee di credito per acquistare aerei Sukhoi, carri armati e componenti per il comparto navale per una serie di contratti dal valore complessivo di più di 11 miliardi $. Degne di menzione anche le esportazioni e le forniture di prodotti agricoli, con la cifra record di 226.000 tonnellate di grano consegnate al Venezuela nel 2018. Segno tangibile di impegno a lungo termine del Cremlino è la volontà del Paese di contribuire a ristrutturare il debito sovrano venezuelano di 3,15 miliardi $, importante mossa di soft power che ha suscitato malumori nell’opinione pubblica russa. Di fronte alle endemiche fragilità economiche russe, appare paradossale constatare come l’impegno economico nei confronti del Venezuela rimanga un elemento indiscutibile dei processi decisionali degli apparati del Cremlino. Nonostante la volontà dei portavoce del potere russo nel delineare dinamiche a lungo termine, è altresì scontato che il sostegno economico al disastrato sistema bolivariano non potrà mantenersi costante a lungo termine.
Lo scorso anno, l’atterraggio a Caracas di due bombardieri strategici russi ha rappresentato un importante svolta nel sostegno del Cremlino nei confronti del Venezuela. Per quanto non si sia trattato di un caso isolato, le tempistiche si inquadrano perfettamente in un contesto di evoluzione della crisi, che rischia di degenerare in una sanguinosa guerra civile, in quanto Maduro dispone della fiducia dell’esercito e dei paramilitari. Il sostegno diplomatico in sede Onu si esprime con il veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite alla risoluzione degli Stati Uniti sul Venezuela, opponendo il sostegno alla sovranità dello Stato e denunciando la volontà degli Stati Uniti di “interferire negli affari interni del Venezuela con il solo obiettivo di rovesciare il governo del Paese caraibico” , come ha affermato il rappresentante permanente della Federazione Russa presso le Nazioni Unite, Vasily Nebenzya. Rispondendo alla politica degli aiuti americani alla popolazione, bloccati al confine da Maduro, la Russia ha inviato importanti spedizioni in generi alimentari, forniture sanitarie e attrezzature mediche altrettanto importanti per un Paese allo stremo.
La Russia agisce nell’arena multipolare in modo pragmatico: difendere il Venezuela permette al Paese di piazzare una pedina strategica a poca distanza dagli Stati Uniti, emulando il sovietico esempio di Cuba; cambiano le ideologie, i regimi e i presidenti ma le necessità geopolitiche restano immutabili. Il Venezuela, però, non è la Siria e difficilmente il Cremlino sarà disposta a ulteriori sforzi per Maduro. Il Cremlino è sicuramente intenzionato a non perdere i propri trasversali investimenti e a tal fine sosterrà il governo chavista con ogni mezzo, ma nel caso di un peggioramento della posizione di Maduro e della tenuta del regime, dovrà necessariamente avviare contratti proficui con l’opposizione interna e i Paesi che la sostengono. Se non è in discussione la partecipazione della Russia alla battaglia ideologica per la salvezza del Venezuela, non v’è dubbio che un fallimento della stessa costerà importanti conseguenza alla postura politica e all’assertività geopolitica del Cremlino.