“Le abitazioni sono collegate per mezzo di telegrafi magnetici che consentono alle persone di comunicare a distanza“.
L’infrastruttura di Internet nella Federazione è logicamente analoga a quella del resto del mondo, ed è quindi basata anche sulla presenza di ISP (Internet Service Providers) – che offrono agli utenti l’accesso al Web – e del DNS (Domain Name System) – che “traduce” gli indirizzi IP numerici in nomi (ad esempio, “google.com”), connettendoli ai relativi servers: l’accoppiamento biunivoco tra nomi e numeri è poi conservato in un imponente registro virtuale.
È proprio nell’ambito dell’assegnazione e della gestione dei nomi di dominio – quello che in gergo è chiamato “internet naming” – che entra in gioco il ruolo fondamentale dell’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers). L’organizzazione – oggi formalmente indipendente – dal 2016 ha sottratto la funzione IANA (Internet Assigned Numbers Authority) al Dipartimento del Commercio statunitense, mettendo quindi fine ad un controllo governativo quasi ventennale. Le implicazioni di tale passaggio sono assai rilevanti: se prima a Washington D.C. avevano teoricamente l’ultima parola sulla funzione IANA – e quindi sul sistema di attribuzione dei nomi in Internet –, dal 2016 ciò non è più vero.
Per alcuni, tale mossa “privatizzatrice” costituisce una concessione statunitense alle pressioni di molti Stati – Russia e Cina in testa – che spingono per affidare la gestione degli indirizzi IP ad un organo politico internazionale (come l’ONU).
È proprio la questione del DNS uno dei punti salienti del nuovo approccio normativo russo ad Internet, improntato ad una sorta di “autarchia virtuale“, funzionale a rafforzare la sicurezza nazionale: Mosca intende dare vita ad una propria copia del DNS – autonomo dall’ICANN –, che è un’idea a sua volta collegata al più ampio progetto per mettere al sicuro gli operatori cibernetici russi da eventuali attacchi esterni. Così, nel caso l’ICANN decidesse di mettere fuori uso un sito con dominio “.ru”, il sistema-copia russo riuscirebbe a mantenere il sito web attivo nei confini della Federazione.
La bozza normativa originale è stata convertita nella legge federale n. 242-FZ, che dal 2016 costringe gli “operatori di dati” a memorizzare i dati personali dei cittadini russi solo all’interno della Federazione Russa, pena restrizioni all’accesso od addirittura il blocco da parte delle autorità locali – nel caso specifico, la Roskomnadzor. Va peraltro notato come la definizione di “operatori di dati” sia potenzialmente amplissima, dato che è riferita a tutte quelle entità – anche e soprattutto estere – che forniscono servizi aventi a che fare con cittadini russi.
Le prime sanzioni sono già state comminate, non solo contro i giganti statunitensi: LinkedIn è stato bloccato ed anche il russo Telegram (fondato dal pietroburghese-torinese Pavel Durov, già padre di VKontakte – il principale social in Russia) è stato preso di mira. Anche Facebook, WhatsApp, Instagram e Twitter rischiano, come minimo, multe pecuniarie per non aver rispettato la legge russa. Peraltro, le recenti dichiarazioni del CEO di Facebook, Mark Zuckerberg – che ha ribadito di non essere disposto a comunicare “dati sensibili” a quei Governi che non garantiscono la privacy ed il rispetto dei diritti umani – paiono destinate a gettare altra benzina sul fuoco.
Se è un dato di fatto che i divieti siano (piuttosto agevolmente) aggirabili tramite VPN e proxies, è altresì vero che le autorità russe cerchino di censurare – seppure con scarso successo – anche sotto quest’ultimo aspetto.
In questo solco si inserisce l’esperimento annunciato da Mosca per i primi di aprile, consistente in una “disconnessione” temporanea dall’Internet globale – che non comporterà inaccessibilità, piuttosto rallentamenti. Ciò al fine di verificare affidabilità e sicurezza dell’Internet russo: la Runet. Un progetto, il suddetto, che non ha mancato di suscitare perplessità anche in patria, dato l’ingente costo che l’esperimento significherà per le casse pubbliche (quantificato in 20 miliardi di rubli, ovverosia circa 270 milioni di euro).
All’inizio di febbraio, la Duma di Stato ha approvato in prima lettura il progetto di legge Klishas-Bokova, che punta a rafforzare la sicurezza strategica mediante la creazione di un’infrastruttura autonoma, in grado di reggere in caso d’impossibilità da parte dei providers russi di connettersi ai servers DNS localizzati all’estero (quelli principali, i root DNS, sono 13 in giro per il mondo). Peraltro, il legislatore russo non ha mancato di puntare il dito contro la strategia rivale statunitense, definita come “aggressiva” ed accusata di stigmatizzare il Cremlino per una molteplicità di attacchi informatici contro istituzioni ed imprese statunitensi.
Se da una parte il Presidente Putin sostiene vivacemente il tentativo di disconnessione – rassicurando sul fatto che “la Russia non ha intenzione di disconnettersi dall’Internet globale”, ma al contempo affermando che “tutto può succedere“ –, dall’altra in molti temono una regressione alla cinese: un Internet “sovrano”, infatti, è certamente meglio controllabile, e quindi censurabile (Pechino docet).
In realtà, il dibattito sembra essere, più in generale, quello tra i fautori di una Rete “sovranazionale” (gli “architetti di Internet” sono oggi formalmente autonomi dai Governi), da una parte; e quelli di una Rete “internazionale” – con una partecipazione governativa più incisiva, per meglio rispondere alle esigenze di controllo e sicurezza nazionale –, dall’altra.
Per capire chi prevarrà, l’esperimento della Runet sarà quindi un fondamentale banco di prova.