Già ventilata nei mesi precedenti da Donald Trump, la denuncia statunitense del trattato Intermediate-Range Nuclear Forces (INF) è stata ufficializzata dal Segretario di Stato Mike Pompeo il primo febbraio. La reazione da Mosca non si è fatta attendere, con il presidente Vladimir Putin ad annunciare a propria volta la sospensione russa, aprendo così una finestra di sei mesi per l’eventuale risoluzione di divergenze tra i contraenti prima del ritiro definitivo.
Il trattato INF venne siglato nel 1987 da Michail Gorbacëv e Ronald Reagan con lo scopo di bandire missili balistici e da crociera basati a terra con gittata compresa tra 500 e 5000 chilometri, a testata convenzionale e nucleare. L’accordo tra Stati Uniti e Unione Sovietica suggellò un decennio di turbolenze sul fronte di una preoccupante corsa agli armamenti, ritorno di fiamma di una guerra fredda che ormai stava imboccando il viale del tramonto. Se si vuole identificare un casus belli, lo si può collocare nel 1976, quando Mosca schiera missili SS-20 a medio raggio puntati verso l’Europa continentale, mettendo a dura prova la tenuta dell’alleanza nord-atlantica. In effetti, solo nel 1979 la Nato giunse all’elaborazione della cosiddetta “double-track strategy“, ossia un duplice binario che univa un piano per schierare missili statunitensi a medio raggio in diversi paesi d’Europa con l’apertura di un dialogo con l’Urss per il controllo degli armamenti particolarmente caldeggiato dal Vecchio Continente. Il Cremlino non si mostra aperto al negoziato e da lì a poco l’invasione sovietica dell’Afghanistan segna ex abrupto un peggioramento dei rapporti tra le due superpotenze, alimentando I timori di una degenerazione sul fronte degli armamenti.
Nel frattempo, all’interno dell’Alleanza nordatlantica la formazione di uno Special Consultive Group va nella direzione di un sempre maggior consenso tra i membri in merito al controllo delle dotazioni militari, mentre nel 1980 I sovietici accordano un inizio di trattative in nuce. Nel novembre 1983, però, gli Stati Uniti iniziano a schierare i primi Pershing II su suolo europeo e inaugurano il secondo binario della “double track-strategy”, quello deterrente. Puntuale arriva il net sovietico al proseguimento dei negoziati. Solo dopo l’elezione di Michail Gorbacëv a segretario generale del Pcus, le trattative riprendono e, passando dal vertice di Reykjavik del 1986, si giunge finalmente alla firma del trattato INF da cui abbiamo cominciato.
Anni di lavoro, di passi avanti e ripensamenti per approdare a un trattato che entro il maggio 1991 portò allo smantellamento di oltre 2600 unità missilistiche in oggetto su entrambi i versanti del mondo bipolare. Appunto il contesto contemporaneo rese possibile il raggiungimento di un accordo di tale fatta: a ovest un fronte Nato unito, a est un blocco socialista alle prese con problemi economici e una crisi sistemica, che condusse a riforme le cui conseguenze si rivelarono esiziali per l’Urss. Un quadro ben differente da quello attuale, che vede l’Alleanza atlantica sfilacciarsi, gli Stati Uniti disimpegnarsi su vari scenari, la Russia ripresasi dai terribili anni Novanta decisa a tornare grande potenza, la Cina sempre più vicina e additata – riesumando refrain ottocenteschi – come incombente “pericolo giallo”.
La denuncia del trattato INF si inserisce in un momento di crisi nera dei rapporti russo-statunitensi. Con la crisi ucraina a fare da cornice, già Obama nel 2014 aveva accusato Mosca di infrangere il trattato con test su armi bandite proprio da quest’ultimo. All’inizio di quest’anno, poi, il Cremlino è stato accusato di aver dispiegato sul fronte europeo quattro battaglioni di 9M729, missili da crociera con gittata fino a 1500 chilometri. Imputazioni rispedite al mittente dai russi, I quali hanno sostenuto che il raggio d’azione massimo sia di 480 chilometri e rientri quindi nei limiti imposti dal trattato in oggetto. Dal canto suo, neppure Mosca ha lesinato accuse dirette al di là dell’Atlantico in merito al potenziale offensivo attribuibile allo scudo antimissilistico a stelle e strisce impiantato in Romania e Polonia.
Lo scorso gennaio, un incontro bilaterale a Ginevra per appianare le divergenze non ha recato frutti. Visto dalla Piazza Rossa, il trattato INF non è sufficiente a debellare la crescente sensazione di accerchiamento data dall’espansione a Est della Nato. Se a ciò si aggiunge il fatto che solo armamenti basati a terra sono oggetto del trattato, i missili aviolanciati e installati su navi Usa dal Mar Nero al Baltico rimangono una minaccia tangibile per il Cremlino.
Attraverso le lenti di Trump, invece, trattati internazionali alla stregua dell’accordo nucleare iraniano sono liquidati come lacci e lacciuoli alla potenza statunitense e da eliminare in quanto tali. Invischiato in accuse di collusione con il gigante russo, il presidente Usa potrebbe anche tentare di allontanare da sé l’immagine di quinta colonna putiniana prendendo le distanze da Mosca in maniera così recisa.
Una valutazione condivisa da entrambe le forze in gioco – e condivisibile – è la constatazione che il trattato INF risulta superato sotto alcuni aspetti. Non solamente nell’ignorare – come già ricordato – missili aviolanciati o imbarcati su flotte militari, ma anche nel non coinvolgere altri attori rilevanti, come India, Pakistan, Iran, Corea del Sud e il contendente per eccellenza, la Cina.
Si finirà dunque per dare il via a una corsa agli armamenti nel caso in cui si apponesse la parola fine al trattato INF? Per ora appare improbabile. Sul versante europeo, la percezione della minaccia russa è mutata rispetto ai tempi della Guerra Fredda e sono per lo più i “neofiti” dell’ex blocco socialista a percepire il gigante euroasiatico come un immediato pericolo. Mancando inoltre all’Europa un organismo di difesa congiunta alternativo alla Nato, la presa di distanze trumpiana dall’Alleanza atlantica anche in termini di finanziamento non sembra preludere a una corsa alle armi. Spostandosi sullo scenario asiatico, il contenimento della Cina utilizzando gli strumenti attualmente vietati dal trattato INF passerebbe dallo schieramento degli stessi sui territori alleati di Giappone, Filippine o Corea del Sud. Alla luce del carattere sensibile di una simile misura (si veda, a titolo, di esempio, l’opposizione popolare giapponese a una nuova base militare Usa sull’isola di Okinawa), è improbabile che Trump intenda inimicarsi Tokyo, Manila o Seul.
Nel frattempo, la data da tenere d’occhio è il 2 agosto, data limite allo scadere della quale si conoscerà l’inappellabile sorte del trattato INF. Un trattato la cui eventuale fine forse non avrà strascichi fatali, ma farà vacillare un po’ di più la ricerca di un equilibrio che passa anche dagli armamenti.