L’Ucraina che si prepara al voto delle Presidenziali del 31 marzo è un Paese spaccato.
Non solo per il numero estremamente alto dei candidati, tale per cui non si prevede, ad oggi, che alcuno di essi riesca a superare il 25% dei voti al primo turno. E non solo per la scarsissima popolarità (attestata al 10%) del governo uscente.
Ma perché, banalmente, non ha ancora risolto la guerra civile che lo attanaglia da cinque anni quasi esatti, ovvero da quel 6 aprile 2014 in cui alcuni gruppi di manifestanti armati si impadronirono delle sedi governative negli oblast’ di Donec’k, Luhans’k e Charkiv.
Gli accordi di Minsk languono. La guerra nelle regioni orientali non è né calda né fredda, ha perso tutto il suo appeal mediatico internazionale ma al tempo stesso non si è fermata, né ha cessato di produrre vittime. Benché l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani abbia registrato un calo significativo delle perdite negli ultimi tre mesi di osservazione, tale trendsembrerebbe dimostrare più uno stallo politico e militare (in attesa, ormai, degli esiti del voto) che un reale appianamento dei contrasti.
Complice lo scarso numero di vittime, i media occidentali tacciono. Solo i fatti del Mar d’Azov hanno temporaneamente riacceso i riflettori sulla crisi. Relegandola però alla cronaca delle prove muscolari tra Mosca e Kiev, o alle questioni di diritto internazionale relative al passaggio delle navi nello Stretto di Kerč’. Poco o nulla è stato detto su Donec’k e Luhans’k, le due repubbliche separatiste in lotta contro il governo centrale di Kiev.
Alla vigilia dell’appuntamento elettorale, viene spontaneo chiedersi quale sarà il futuro dei territori contesi. Innanzitutto bisogna precisare che nelle due regioni, nelle quali (assieme alla Crimea) risiederebbe il 12% del corpo elettorale ucraino, non si potrà votare per le prossime presidenziali ucraine. Non tutti, peraltro, sanno che nelle due repubbliche separatiste si è già votato lo scorso 11 novembre per eleggere i leader locali (Pušilin a Donec’k e Pasečnik a Luhans’k), in violazione degli accordi di Minsk secondo l’OSCE e i membri del Formato Normandia, che non hanno riconosciuto il voto. A giudicare dall’affluenza ottenuta in quella tornata (superiore al 70%), non sarebbero stati comunque molti i potenziali elettori per la tornata del 31 marzo. E con tutta probabilità, non avrebbero votato Porošenko.
Il presidente uscente, com’è noto, ha perso molta popolarità rispetto ai suoi esordi. L’andamento della guerra ma soprattutto le pessime performance nell’economia e nella lotta contro la corruzione potrebbero costargli la rielezione, anche se i sondaggi delle ultime settimane lo stanno vedendo in ripresa. Nel (poco probabile) caso di una sua vittoria, Porošenko verosimilmente manterrebbe l’approccio tenuto fino ad oggi nei confronti sia dei ribelli, sia degli attori internazionali che formalmente lo appoggiano.
Più originale, in una certa misura, la strategia della sua più nota e agguerrita competitor, Julija Tymošenko, intenzionata ad allargare l’attuale gruppo “Normandia” per rafforzare le premesse diplomatiche di una pace. L’obiettivo dichiarato dell’ex premier ucraina sarebbe quello di ripristinare le garanzie internazionali promesse con il Memorandum di Budapest (1994), ottenendo così un riconoscimento esplicito della sovranità ucraina sulla Crimea e sul Donbass (in base agli accordi di Budapest, il territorio ucraino sarebbe stato garantito dalla Russia e dalla comunità internazionale in cambio della rinuncia – realmente attuata poi – del possesso di armi nucleari da parte di Kiev). Ma un superamento così improvviso degli accordi di Minsk, dando peraltro per scontato l’assenso di Mosca e dei separatisti, sembra del tutto illusorio ancor prima che irrealistico.
L’attore Volodymyr Zelenskij, attualmente il candidato più in alto nei sondaggi, non sembra avere una posizione molto definita sulla guerra nel Donbass. Ma proprio perché ha buone chance di diventare presidente, è opportuno esporre le sue idee in merito. Zelenskij vorrebbe incontrare Vladimir Putin, evitando di concedere altrettanta dignità politica ai neopresidenti delle due repubbliche autoproclamate, e trovare un accordo diretto per la pacificazione. Anche qui, almeno a parole, gli accordi di Minsk non sarebbero praticamente presi in considerazione.
Simile posizione a quella sostenuta da Anatoly Hrytsenko, ex ministro della difesa (2005-2007) con più ridotte possibilità di arrivare al secondo turno, mentre Jurij Bojko, ex vice primo ministro e alleato di Viktor Janukovyč, sarebbe invece il candidato più filorusso tra i papabili successori di Porošenko: suo intento sarebbe quello di fermare le azioni militari nel Donbass e di riappacificarsi con Mosca. Ma la sua forza elettorale non dovrebbe andare oltre il 10% dei consensi.
Da questa breve panoramica, si può evincere come la crisi del Donbass sia ancora lontana dal trovare una soluzione: nessuno o quasi tra i candidati sembra in grado di imprimere una svolta realistica al corso degli eventi. Quasi tutti promettono un cambiamento radicale, sull’onda del malcontento provocato da cinque anni di guerra, ma le soluzioni indicate sono spesso bizzarre o irrealizzabili. Più adatte a un talk show che a una conferenza diplomatica internazionale. Se ciò sia dovuto a scarsa preparazione o a una mancanza di volontà nel sostenere posizioni impopolari, non è ancora dato saperlo.
Quel che è certo, è che in un Donbass ancora lontano da una vera normalizzazione in pochi si fanno illusioni sul post voto. Anche perché, fatto salvo un crescente desiderio di pace e stabilità, l’orientamento generale degli ucraini resta spaccato sulle solite linee. Linee che per chiunque sarà difficile forzare, data la probabile frammentarietà che costituirà la maggioranza in sostegno del nuovo presidente.