Spesso, pensando alle relazioni tra Russia e Bielorussia viene in mente solamente una cosa: il trattato dell’Unione. Il trattato aveva lo scopo di unire gradualmente i due Paesi nel settore economico, politico (tramite la creazione di un Consiglio con entrambi i rispettivi rappresentanti) giuridico e monetario. Insomma, voleva essere una vera e propria unione di due Stati in uno. Con questo obiettivo in mente, le trattative iniziarono nel 1996 e continuarono attivamente fino al 2001, per poi essere messe da parte quasi definitivamente fino ad oggi.
Queste le parole del Ministero degli Esteri bielorusso a tal riguardo. E a questo punto viene spontaneo porsi due domande: cosa ha spinto proprio questi due paesi a voler unirsi e perché ha ancora senso parlarne nel 2019?
Durante l’Unione Sovietica, la Bielorussia si è sempre dimostrata tra le più leali e virtuose repubbliche, tanto da guadagnarsi il diritto di diventare sede dei maggiori depositi di attrezzature militari e armamenti e riuscire nell’intento di soddisfare le richieste del piano quinquennale grazie alle sue industrie pesanti negli anni Settanta. Ma le ragioni di tale lealtà vanno ben oltre i vantaggi derivanti dalle buone prestazioni economiche. Dopo le devastazioni naziste ad ovest del Paese, la già fragile identità bielorussa (contesa tra quella polacca, lituana e dell’impero zarista) andò creandosi ex novo, ad immagine del massimo ideale sovietico di Repubblica.
Ma dopo il 1991, i vantaggi e i successi ottenuti andarono persi quasi completamente. Così che il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko , salito al potere nel 1994, da subito mobilitò il governo per suggellare un legame economico e politico con il partner a loro più vicino e ricco di risorse: la Federazione Russa. Questo avrebbe garantito sicurezza politica, sociale e soprattutto economica ad un popolo che da sempre aveva preferito la stabilità all’indipendenza. Così, dal 1996 Lukašenko e El’cin non risparmiavano discorsi e meeting per quest’Unione tra due ex-repubbliche sorelle, che agli occhi dell’Occidente (ma anche delgli altri Stati ex-URSS) aveva più il sapore dell’annessione dell’una all’altra.
Con i tempi che cambiavano e il ricordo sovietico che si allontanava, il nuovo millennio portò la Russia a rivedere la sua posizione e la sua strategia internazionale, e questo nuovo approccio non coincideva con la ricerca di stabilità (e favori) da parte di Lukašenko. Una dimostrazione lampante la si ebbe durante la presidenza ad interim di Putin nella prima metà del 2000: niente più gas e petrolio in cambio di latticini, chiara manifestazione di come la Bielorussia, per una Russia appena uscita dalla crisi del 1998, avrebbe solo rappresentato una zavorra economica insostenibile per il Paese.
La risposta di Lukašenko fu una serie di sempre più convinti discorsi di indipendenza e autodeterminazione del popolo bielorusso, con il graduale utilizzo della lingua bielorussa in pubblico (cosa mai avvenuta prima, considerando anche che Lukašenko è madrelingua russo). Ciononostante, le necessità economiche del Paese ribadivano costantemente quanto portare fino in fondo tali prese di posizione fosse impraticabile. Sta di fatto che la Bielorussia continuò il suo ruolo di Paese transito per il gas all’Europa con i gasdotti e gli oleodotti (come Yamal-Europa e Druzhba) e ad ospitare molteplici esercitazioni militari congiunte, tra cui la più imponente Zapad2013.
Quest’Unione, i cui obiettivi erano forse stati delineati in maniera troppo frettolosa, venne in poco tempo sostituita da una serie di istituzioni che senza ombra di dubbio sarebbero riuscite a placare gli animi e ad attenuare la radicalità delle pretese sia da una parte che dall’altra. Le più rilevanti sono sicuramente CIS, CSTO e EEU, tutte promosse da Mosca e appoggiate da Minsk.
Al di là dei mancati successi degli inizi, le motivazioni che avevano spinto entrambi i paesi ad unirsi erano chiare: per la Bielorussia si trattava di necessità prettamente economiche, mentre per la Russia rispecchiava piani geopolitici di più ampio respiro (la Bielorussia è un paese di transito cruciale per l’energia, un recipiente per molte operazioni militari ed è indubbiamente non suscettibile al fascino occidentale, rendendolo così una sorta di Stato cuscinetto).
Ed è per questo che l’arena internazionale sembrerebbe essere stata colta di sorpresa quando fu la Bielorussia a modificare questo percorso di unificazione: in risposta alle azioni russe in Georgia, Minsk assunse un atteggiamento che si potrebbe definire “cautamente preoccupato”, per passare poi ad una netta condanna per l’annessione della Crimea e l’indubbia presenza russa nel conflitto del Donbass. Il 2014 diventa così l’anno spartiacque: Lukašenko da questo momento in poi negherà sempre e costantemente un’Unione in cui non vengano rispettate l’identità e l’integrità del proprio Stato.
Ma a questo anelito d’indipendenza di una Bielorussia matura e pronta a lasciarsi il passato alle spalle non sarebbe corretto dare troppo peso. Il Paese di Lukašenko rimane una terra in cui l’economia stenta e il maggiore partner commerciale rimane pur sempre la Russia, alla quale tali allusioni di una Bielorussia aperta e indipendente non sono piaciute. Infatti, molteplici sono state le “guerre del gas“, con firma dei contratti al limite della scadenza, interruzioni di forniture con false accuse e un repentino innalzamento dei prezzi insostenibile. Il tutto seguito da sanzioni sugli alimenti d’esportazione (principalmente latticini) e sordide minacce volte a ricordare chi, nel settore economico, continua ad avere il coltello dalla parte del manico.
Questo perenne stato di tensione trova però un confuso riscontro a livello politico: Putin e Lukašenko spesso fanno affermazioni opposte, al punto che viene da domandarsi se effettivamente i due presidenti si confrontino sulla questione dell’Unione.
Il 1° marzo 2019 si è svolto l’incontro annuale del Presidente bielorusso con le maggiori testate giornalistiche nazionali e internazionali, il “Grande discorso con il Presidente“. Alla scontata domanda sull’Unione, Lukašenko ha risposto così: “oggi i bielorussi vogliono stare assieme alla Russia, però nel loro proprio appartamento… cosa c’è di male in questo?“. Per poi continuare in maniera alquanto laconica, scaricando le responsabilità sul popolo bielorusso: “se oggi ci chiedessero di fare un referendum [riguardo l’Unione] il 98% della popolazione voterebbe contro“. Ma ciò sembrerebbe non coincidere con le affermazioni del Cremlino riportate da TASS, secondo le quali la Bielorussia “è un alleato con la A maiuscola“.
Ad oggi, quindi, le aspettative dei due Paesi riguardo l’Unione rimangono ben diverse. Lukašenko enfatizza che è inutile discutere di Unione, se poi le merci vengono bloccate al confine russo (lo scorso anno, la scusa utilizzata è stata la presenza di un batterio nei prodotti caseari bielorussi, ripetutamente smentita da Minsk), ma Mosca ufficialmente evita la questione e preferisce sottolineare l’importanza geostrategica che questa sorta di “alleanza all’ennesima potenza” rappresenterebbe, senza però entrare nei dettagli più pratici del come e del quando.
Sono ormai passati 23 anni dai primi entusiasti tentativi di un avvicinamento ufficiale tra Russia e Bielorussia e, allo stato attuale, la messa in atto del trattato sembrerebbe più lontana che mai. Questa Unione non ha saputo dimostrarsi capace di reagire alle richieste dei tempi che cambiano, rispecchiando una latente e incolmabile fragilità. Rimane però interessante notare come la questione venga risollevata dai mass media ogni qualvolta Putin e Lukašenko intavolino trattative di qualsivoglia genere. Forse ciò può essere dovuto al fatto che negli anni Novanta una tale volontaria sottomissione di un Paese indipendente pareva eclatante, e i possibili risvolti incuriosivano e preoccupavano. O forse, il motivo ultimo per cui ha ancora senso ricordare le trattative ufficialmente ancora in atto, è che tutt’ora una domanda del genere si rivela un’ottima cartina di tornasole per identificare i cambi di umore e gli interessi di entrambi i leader. Rimane comunque un fatto che ad oggi, se non esplicitamente interrogati al riguardo, Putin e Lukašenko farebbero volentieri a meno di parlarne.
Giulia Baiutti