Nel mondo bipolare, l’Unione Sovietica era un baluardo dell’antimperialismo terzomondista e uno strenuo difensore della lotta anticoloniale. Un approccio che le permise di diventare il partner privilegiato di molti Paesi africani a suon di forniture di armi e uomini per i movimenti di resistenza, accordi economici, borse di studio di cui hanno usufruito diversi leader africani formatisi a Mosca. La fine della guerra fredda e il disgregarsi dell’Urss significarono per la neonata Federazione Russa il disimpegno internazionale e la chiusura sulle innumerevoli criticità legate alla transizione. Negli ultimi anni, infine, il ritorno in pompa magna sulla scena globale, alla quale appartiene a pieno titolo anche l’Africa, campo di battaglia per le potenze mondiali spesso oscurato da terreni più mediaticamente remunerativi come quello mediorientale.
L’ingresso di Mosca nel nuovo scramble for Africa del XXI secolo segue una varietà di direttrici e interessi strettamente interconnessi. Nell’agosto scorso, l’uccisione di tre reporter russi in Repubblica Centrafricana ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’attivismo russo sul piano militare e securitario. I tre reporter erano infatti impegnati in un’inchiesta sulla presenza nel Paese del Wagner Group, una società privata di contractor fondata da un ex dirigente dei servizi segreti russi e apparentemente vicina alle alte sfere del Cremlino. La forza militare privata in questione è oggetto di sanzioni statunitensi in quanto accusata di fornire uomini alle autoproclamatesi Repubbliche popolari di Doneck e Lugansk nell’Ucraina orientale nonché di essere presente sul terreno in Siria.
I mercenari russi non sono merce rara in Africa, così come non lo sono le armi di Mosca. Basti pensare al sostegno fornito al generale Khalifa Haftar in Libia in chiave anti-tripolina o agli uomini accorsi in soccorso di Omar al Bashir alle prese con proteste contro il suo regime. Nel 2017, il 13% delle esportazioni di armi russe hanno avuto come destinazione l’Africa, soprattutto un alleato di lungo corso come l’Algeria, retta de facto dai suoi quadri militari. Il Cremlino si è fatto strada anche nella lotta al terrorismo, con Paesi come Niger, Chad, Burkina Faso e Mauritania che hanno bussato alle porte di Vladimir Putin per un aiuto contro le forze jihadiste. Il già citato caso centrafricano rappresenta un buon esempio del legame tra apparato militare-industriale russo e altri settori dell’economia.
A Bangui, il consigliere presidenziale per la sicurezza è russo e armi e addestramento sono smerciati da Mosca in cambio di diritti per operare miniere di oro e diamanti. Il settore estrattivo è un altro dei fronti su cui il Cremlino si muove utilizzando le grandi aziende di Stato come ariete. Alrosa è già attiva in Angola e Botswana nell’estrazione di diamanti, mentre accordi sono stati presi con lo Zimbabwe. Nell’ambito della bauxite si muove invece Rusal, con siti operati in Guinea. La Namibia gioca un ruolo importante per l’estrazione di uranio, trait d’union con l’industria energetica che vede la Russia primeggiare.
Vari Paesi africani hanno espresso interesse per l’opera di Rosatom nel settore del nucleare civile; tra questi figura l’Egitto, dove i russi dovrebbero costruire la prima centrale nucleare nella terra dei faraoni. Ovviamente neppure l’industria degli idrocarburi poteva mancare, con Libia e Algeria tra gli Stati più appetibili. In un gioco di do ut des, investimenti in un settore sono merce di scambio per aperture su altri fronti, come gli esempi finora richiamati dimostrano. Mosca si augura lo stesso accada in Nord Africa, dove l’appoggio a Haftar dovrebbe auspicabilmente tradursi in concessioni petrolifere e basi navali in un futuro quadro di affermazione su scala panlibica dell’uomo forte della Cirenaica. Nel frattempo, accordi che potrebbero preludere all’installazione di basi navali sull’affollato Mar Rosso (si pensi all’assalto internazionale a Gibuti) sono stati presi con il Sudan in merito alla sosta nei suoi porti di navi della marina russa e con l’Eritrea a riguardo della creazione di un centro logistico lungo la costa.
Nell’assalto neocoloniale all’Africa, la Russia ha saputo capitalizzare indubbie posizioni di vantaggio in merito ad alcuni concorrenti. Innanzitutto, la non condizionalità degli investimenti e la professione di non ingerenza negli affari interni ai singoli Stati. Due elementi che da una parte la distinguono da pretendenti come il Fondo Monetario Internazionale o gran parte degli attori occidentali, mentre dall’altra la accomunano alla Cina. Mosca si è ricavata una propria nicchia per nulla trascurabile anche nella competizione con Pechino, indubbiamente impari in termini di potenza economica. Il Cremlino ha dimostrato infatti l’abilità di recuperare i rapporti di amicizia e fiducia di epoca sovietica e puntare sui propri settori di expertise. Mentre infatti la Repubblica Popolare cinese è tutto sommato una neofita nella sua apertura al palcoscenico africano, i russi recano con sé credenziali di eccellenza in ambiti come quello del nucleare o delle armi.
Ultimo elemento sfruttato da Mosca, infine, la distrazione di Washington. Così come in Medio Oriente, la Russia ha saputo approfittare del disimpegno africano da parte degli Stati Uniti, concentratisi piuttosto sul fronte pacifico in chiave anticinese e – più recentemente – sull’estero vicino latino-americano, tra migranti messicani e dossier venezuelano. L’amministrazione Trump sembra essersi resa conto solo da poco dell’assalto russo – cinese al continente nero. Nel dicembre scorso, il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, John Bolton, ha qualificato le attività di Mosca e Pechino di “pratiche predatorie” che soffocano la crescita economica e insidiano l’indipendenza finanziaria dei Paesi africani, al contempo inibendo gli investimenti, interferendo con le operazioni militari e ponendo una significativa minaccia agli interessi securitari nazionali a stelle e strisce. Bolton ha inoltre accusato i russi di capitalizzare i propri investimenti in sede Onu, dove in effetti i Paesi africani hanno dimostrato riconoscenza verso la potenza eurasiatica (astenendosi in larga parte, ad esempio, dal votare nel dicembre scorso una risoluzione di condanna dell’annessione crimeana). La nuova politica africana statunitense per colmare il gap con Mosca e Pechino partirebbe innanzitutto da una riduzione dei fondi per le missioni onusiane, confermando la diffidenza di Trump verso alleanze internazionali come la Nato.
Ispirata dal Cremlino, si è aperta la pagina dell’ “Africa First”?