“La presente indagine non ha rilevato che la squadra elettorale di Trump abbia cospirato […] con il Governo russo nelle attività di interferenza elettorale di quest’ultimo“.
Sono state probabilmente queste le parole più dolci per il 45° presidente degli Stati Uniti dall’inizio del suo mandato. Più del boom del mercato occupazionale, più del momento d’oro dell’economia ad ovest dell’Atlantico. Perché l’inchiesta sulle presunte ingerenze russe nella campagna elettorale che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca – il “Russiagate” – era indubbiamente la spada di Damocle più pericolosa per l’inquilino newyorkese del 1600 di Pennsylvania Avenue. Non solo viene così a cadere l’elemento imprescindibile per la riuscita dell’impeachment – ammesso che i repubblicani avrebbero votato a favore al Congresso –, ma anche e soprattutto perché il leader della principale economia e forza militare al mondo si scrolla di dosso l’infamante accusa di essere un burattino al soldo di Mosca.
Certo, i 22 mesi dell’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller – in realtà partita già prima del 2017 – hanno fatto emergere altri crimini federali, che a loro volta hanno portato ad arresti eccellenti nell’entourage dei fedelissimi di Trump. Tuttavia, nessuna “pistola fumante” sulla Russia. Nessuna prova che la squadra elettorale di The Donald abbia ricevuto denaro o supporto diretto dal Cremlino per battere la candidata democratica Hillary Clinton. Ciò, ben inteso, non significa che a Mosca non abbiano cercato di influenzare la tornata elettorale del 2016 – il che è chiaro e, tutto sommato, ampiamente prevedibile – ma semplicemente che Trump, al massimo, abbia raccolto i frutti di un campo già arato da altri.
Le più di 300 pagine di report completo sul Russiagate sono state consegnate dal superprocuratore Mueller a William Barr – capo del Dipartimento di Giustizia. Per leggere la versione integrale bisognerà verosimilmente attendere ancora qualche settimana, ma finora ciò che più conta è il sunto che Barr ha inviato ai rappresentanti del Congresso ed alla Casa Bianca: quattro pagine da cui pare che, appunto, non vi sia stata collusione con i russi; ma che evidenziano altresì una possibile ostruzione alla giustizia da parte del presidente in fase istruttoria. Accusa che, pur meno fragorosa di un tradimento col nemico storico, potrebbe anch’essa servire come base teorica per una messa in stato d’accusa.
La scintilla che ha innescato l’attività di investigazione risale al maggio del 2016: un consulente di politica estera vicino a Trump – George Papadopoulos – rivelò ad un alto funzionario australiano che la Russia fosse in possesso di materiale politicamente compromettente su Hillary Clinton. In buona sostanza, un attacco hacker (presumibilmente di matrice russa) era riuscito a trafugare migliaia di e-mail private della Clinton dai server del Comitato elettorale democratico. Il tutto fu prontamente pubblicato su Wikileaks di Julian Assange – allora esule nell’ambasciata ecuadoriana a Londra. Materiale che, ça va sans dire, avrebbe finito per influire sul risultato del voto tenutosi 6 mesi più tardi.
L’FBI, informata dagli australiani, decise così di aprire un’indagine per verificare i legami effettivi tra l’amministrazione russa ed il candidato repubblicano – nel frattempo eletto presidente. In uno slancio d’ira funesta per l’avvio dell’indagine, Trump decise però di destituire il capo dell’FBI – James Comey – scatenando un’ondata d’indignazione bipartisan. Ulteriore colpo di scena, in piena tradizione hollywoodiana, fu quello del ministro della giustizia Jeff Sessions: remando controcorrente, Sessions si ricusò ed affidò l’indagine sul presidente ad un organo indipendente rispetto all’amministrazione (scelta, questa, che può aver avuto un certo peso nella decisione di Trump di “dimetterlo” nel 2018 – appena dopo le elezioni di mid-term). L’indagine venne così affidata a Robert Mueller – avvocato newyorkese ed ex direttore dell’FBI dal 2001 al 2013 –, da allora divenuto il “superprocuratore” del Russiagate.
22 mesi di fitte indagini hanno coinvolto gli ambiti più disparati: dagli interessi finanziari di Trump in Russia allo scandalo Cambridge Analytica, passando per gli atti di ostruzione alla giustizia. È stato un incontro in particolare a passare al vaglio attento degli inquirenti, risalente al giugno 2016: alla Trump Tower di New York, una delegazione formata da Donald J. Trump Jr. (figlio del presidente), Jared Kushner (genero di Trump e suo senior adviser) e l’imprenditore Paul Manafort (responsabile della campagna elettorale) incontrarono l’avvocata russa Natalia Veselmitskaya. Dettaglio di non poco rilievo è che quest’ultima non fosse proprio una signora nessuno: tra i suoi clienti figurano infatti i vertici della classe dirigente moscovita e diversi habitué delle stanze del Cremlino.
Ad aggiungere ulteriore benzina sul fuoco è stata l’indagine parallela su uno dei partecipanti alla riunione: Paul Manafort. Gli inquirenti hanno infatti portato alla luce l’intensa attività di lobbying – non dichiarata e dunque illegale – che Manafort aveva prestato a favore dell’ex presidente ucraino Viktor Janukovyč – che, nel 2014, sollecitò formalmente l’intervento armato russo per ristabilire l’ordine in Ucraina (prima di fuggire da esule proprio in Russia). Per di più, il lobbista avrebbe condiviso informazioni sensibili sulla campagna elettorale di Trump con il suo collaboratore Konstantin Kilimnik – considerato un agente dei servizi russi.
A finire sotto il riflettore sono stati, tra gli altri, anche Michael Cohen – legale personale di Trump – e l’ex generale Michael Flynn – National Security Adviser presidenziale. Cohen è stato condannato a 3 anni di carcere per una serie di crimini, che includono l’aver mentito al Congresso e l’aver “comprato il silenzio” di donne che sostenevano di aver avuto rapporti sessuali con Trump (tra cui la pornostar Stormy Daniels). Flynn, invece, ha pubblicamente confessato di aver mentito all’FBI relativamente alle sue conversazioni con l’allora ambasciatore russo a Washington – Sergey Kislyak. Flynn avrebbe falsamente negato di aver chiesto al diplomatico di “astenersi dal far degenerare la situazione”, dopo che gli Stati Uniti avevano approvato un ulteriore pacchetto di sanzioni contro la Russia.
Le premesse per un finale a sorpresa, una sorta di “Watergate 2.0”, parevano dunque esserci tutte. Eppure, la smoking gun non è stata trovata. La condotta di Trump e dei suoi è stata rischiosa, a tratti decisamente ambigua – quando non proprio illegale. Ma non c’è stata collusione con il Cremlino.
Secondo il dossier, la Russia avrebbe fatto breccia in maniera autonoma nel processo democratico statunitense, attraverso due cavalli di Troia: il primo è la Internet Research Agency, un’azienda pietroburghese definita dall’intelligence americana come “fabbrica di troll”. Mediante l’IRA, migliaia di account falsi avrebbero contribuito a diffondere sistematicamente fake news propagandistiche su vari temi di politica interna ed estera – dalla Crimea alla Siria.
Il secondo, per definizione, non ha una faccia: si parla degli attacchi hacker che hanno violato i server della squadra Clinton e del Partito Democratico. In nessuno dei due casi sopracitati, però, il presidente Trump avrebbe avuto alcun ruolo – nonostante, secondo quanto si legge, i russi avessero indirettamente offerto il loro supporto al candidato del GOP.
Il presidente può quindi tirare un sospiro di sollievo, dato che la maggiore preoccupazione è passata – quell’inchiesta (o “caccia alle streghe”, come l’ha definita Trump) che ha diviso il Paese in due. Non per molto, però, data la molteplicità di procedimenti giudiziari ancora aperti, a vario titolo in tutti gli USA, contro il presidente.
Perché, come è logico supporre, una fetta importante della (già aperta) campagna presidenziale per il voto del 2020 non si giocherà ai comizi. Ma nei tribunali.