Si è concluso, ieri, il viaggio del presidente Xi Jinping in Russia. Una visita di ben tre giorni, circostanza non molto comune nelle relazioni internazionali, che ovviamente sottolinea l’importanza storica del momento. Non sussistono infatti dubbi sulla rilevanza strategica del legame tra i due giganti eurasiatici. Né sul fatto che i trend di cooperazione siano in crescita, più o meno su tutti i fronti.
Occorre citarne alcuni. Innanzitutto quelli economici, il vero volano del dialogo russo-cinese. La principale fonte d’affari resta – e resterà a lungo – la vendita di idrocarburi al vorace consumatore cinese, un mercato in espansione che già ricopre il 65% delle esportazioni verso Pechino. In generale, il valore degli scambi commerciali tra i due Paesi ha superato la cifra record di 100 miliardi di dollari proprio l’anno scorso, confermandosi tra i più prosperi del pianeta. E, dato ancora più interessante, l’ultima crescita annua registrata ha sfiorato addirittura il 30%.
Poi ci sono gli accordi specifici. Come quello per la costruzione del terzo e del quarto reattore della centrale nucleare cinese di Xudapu, firmato dall’agenzia russa per l’energia atomica Rosatom con la China National Nuclear Corporation. Ancora più importante l’accordo per l’implementazione del 5G in Russia. Che dà respiro a Huawei, dopo alcune settimane durissime, ma soprattutto segna la scelta di campo di Mosca nell’ambito della guerra tecnologica in atto tra Pechino e la superpotenza americana.
Infine, la sponda politica su molti dei principali dossier internazionali. Frutto, a dire il vero, più di fortunate contingenze che di un reale coordinamento a tavolino. Anzi, ad essere più precisi, le convergenze sulla Siria, l’Iran e il Venezuela derivano più dalla comune contrapposizione a Washington che da una reale alleanza tra le due parti, le quali – occorre ricordarlo – continuano a giocare separatamente.
E a partire da questa considerazione, ovvero l’irriducibile autonomia che contraddistingue la politica estera di ognuno dei due attori, può svilupparsi una riflessione sui limiti della sbandierata intesa.
Per tradizione storica e obiettivi geopolitici Russia e Cina non potranno mai costituire un blocco unitario, capace di imporsi nel sistema delle relazioni internazionali o anche solo in contesti più limitati, come ad esempio quello centro-asiatico di comune pertinenza alle due potenze. Il fatto stesso di rappresentare due pesi massimi della politica internazionale impedisce a Mosca e Pechino di costituirsi in una reale alleanza, che per definizione riduce i margini di indipendenza di chi vi aderisce. Un compito molto più semplice per le piccole e medie potenze.
Ma un’ombra ancora più scura aleggia sul futuro dei rapporti russo-cinesi. La percezione, corrispondente peraltro a realtà, di un crescente squilibrio tra le due grandi potenze. Che in un futuro non troppo lontano potrebbe minare la fiducia reciproca, pur con tutta la buona volontà delle parti.
Si è molto parlato, negli ultimi anni, dello squilibrio economico e demografico. Può sempre essere utile dare un’occhiata ai numeri. Il PIL cinese oggi ammonta a 14mila miliardi di dollari, quasi dieci volte quello russo (fermo a 1700 miliardi). Non solo, ma l’attuale trend di crescita cinese ci segnala che ogni anno l’economia del Dragone aumenta di una somma equivalente a tre quarti dell’intero PIL russo. In altre parole, la Cina cresce di quasi “una Russia” ogni anno. Proporzioni simili in ambito demografico. Per ogni cittadino russo ne esistono circa dieci cinesi, asimmetria in prospettiva ancora più profonda nell’Est della Federazione già oggetto di ondate migratorie consistenti dall’altra sponda dell’Amur. Come se non bastasse, la memoria storica di Pechino non considera legittimo il possesso russo dell’estremo oriente siberiano, anche se l’argomento è ancora un tabù.
I numeri citati sono in realtà già noti da tempo, così come da tempo preoccupano il Cremlino. Più recenti, invece, le sfide provenienti dall’apparato militare cinese – che solo in campo nucleare resterà inferiore a quello russo – e soprattutto dalla sua proiezione politica. In entrambi i casi, Mosca sta soffrendo la perdita di quella centralità a cui tanto si era riavvicinata, in questi ultimi anni.
Non che si fosse mai presentata la possibilità di tornare ai fasti del bipolarismo, sogno irraggiungibile per tutti gli inquilini del Cremlino dal 1989 in avanti. Ma i colpi messi a segno negli ultimi tempi, specie in Medio Oriente, avevano forse illuso i russi di poter giocare ancora un ruolo di primissimo piano nei rapporti con Washington – e quindi, implicitamente, sul piano globale.
Oggi l’attivismo diplomatico (e forse anche militare) russo rischia di essere adombrato dall’ascesa della Cina. Non deve essere dunque semplice, per Putin, scendere a patti con la potenza che lo sta scalzando dal secondo posto dei ranghi globali. Pur nella retorica di una formale parità tra i due partner.
Anche se il dialogo spesso si rivela più facile e proficuo con Pechino che con l’Occidente (altra cosa niente affatto scontata, viste le distanze culturali), la Russia non chiuderà mai del tutto la porta a quest’ultimo. Neanche nel caso estremo in cui dovesse fingere di doverlo fare. Se mai venisse chiamata da Washington a rivoltarsi contro Pechino, magari in nome di una ritrovata unità politica e culturale con l’Occidente, la Russia non resterebbe sorda all’iniziativa. Putin o non Putin, sanzioni o non sanzioni. Gli affari con la Cina continueranno ancora a crescere, ma il cuore di Mosca continuerà a battere verso l’Europa.