Che la situazione fosse complessa era ben chiaro a tutti. Come abbiamo già avuto modo di commentare a ridosso delle ultime elezioni parlamentari [24 febbraio 2019], il risultato uscito dalle urne consegnava il Paese allo stallo più totale. Le particolari attenzioni e le grandi attese per la tornata elettorale di Chisinau, tesa tra Mosca e Bruxelles, si sono rapidamente sgonfiate quando l’esito degli scrutini è stato quello di una sostanziale incertezza: non sfondano i filorussi, né tanto meno i pro-UE. Il blocco politico si è aggiunto, così, ai numerosi problemi del Paese più povero d’Europa.
I FATTI
Dopo oltre 3 mesi di trattative e avvicinamenti, l’8 giugno sembra profilarsi un accordo inatteso, ma potenzialmente funzionale: i due partiti che hanno raccolto più voti, ovvero i Socialisti del presidente Igor Dodon (31,2%) e il movimento anticorruzione ACUM (26,8%) raggiungono l’intesa per formare il nuovo governo moldavo. Il ruolo guida era stato affidato a Maia Sandu, esponente di ACUM, ex dirigente della Banca Mondiale e Ministro dell’Istruzione. La Sandu ha subito dichiarato “la fine del regime oligarchico“, riferendosi al Partito Democratico e al suo patron Plahotniuc, la cui estromissione è parsa subito come il principale obiettivo di questa inconsueta alleanza. Il presidente Igor Dodon, che ha raccolto il giuramento del nuovo governo, ha chiesto agli schieramenti “equilibro e maturità politica“. Da sottolineare come il nuovo sodalizio abbia ricevuto il sostegno congiunto di Bruxelles e Mosca. L’attenzione degli attori internazionali sugli sviluppi politici in Moldavia è stata ben evidente. In questi mesi post-elettorali, rappresentanti UE, OSCE e russi hanno visitato ripetutamente il Paese o dialogato con i suoi delegati. Il 29 maggio, il presidente moldavo Igor Dodon ha intavolato un lungo colloquio con Vladimir Putin, incontrato a Nur-Sultan (Kazakhstan) in occasione del summit dell’Unione Economica Eurasiatica. Pur non essendoci un report ufficiale, è facilmente intuibile quali siano stati i temi in gioco: governo, Europa, Transnistria, energia. Il 3 giugno era nella Capitale moldaba il Commissario UE per le politiche di vicinato, Johannes Hahn, mentre congiuntamente erano in visita anche Dmitri Kozak, rappresentante del Cremlino e promotore di una federalizzazione della Moldova, e Bradley Freden, responsabile dell’Ufficio Europa orientale presso il Dipartimento di Stato americano. Insomma, una notevole spinta per accelerare le negoziazioni.
Tuttavia, nemmeno 24 ore dopo, la Corte Costituzionale di Chisinau ha deciso lo scioglimento del Parlamento e la sospensione del presidente Dodon. Secondo la Corte, il nuovo governo sarebbe stato “illegale“, in quanto il giuramento è avvenuto il giorno dopo la scadenza dei termini, ovvero il 7 giugno. Al suo posto, la Corte ha nominato ad interim Pavel Filip, precedente Primo Ministro, appartenente al Partito Democratico al governo finora, il quale ha indetto nuove elezioni per il prossimo 6 settembre.
LA TENSIONE
Una decisione di tale portata non era mai stata presa prima nella storia del Paese, forse anche per la sua discussa legittimità politica. Infatti, pur sancito dall’Art. 135 sez. F della Costituzione moldava [La Corte Costituzionale verifica le circostanze che giustificano lo scioglimento del Parlamento, la destituzione del Presidente della Repubblica di Moldova o l’ufficio provvisorio del Presidente, nonché l’impossibilità per il Presidente della Repubblica di Moldova di esercitare pienamente la sua funzione doveri per più di 60 giorni], l’interpretazione della Corte è strettamente riconducibile alla sua composizione. Sui 6 giudici che costituiscono l’organo, graverebbe infatti la forte influenza dell’oligarca Plahotniuc. Anche il Segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjorn Jagland, ha espresso la sua perplessità per una mossa che sembra essere molto “arbitraria, alla luce del testo della costituzione, delle leggi del Paese e delle leggi internazionali“, chiedendo quindi il parere della Commissione di Venezia [Commissione europea per la democrazia tramite la legge, 21-22 giugno] sugli sviluppi in Moldavia.
Di fatto, nella settimana successiva alla decisione della Corte (9-14 giugno), nella piccola Repubblica sono coesistiti due governi, vicendevolmente limitanti nelle loro manovre. Il Partito Democratico ed il suo premier ad interim Filip hanno visto migliaia di sostenitori scendere nelle piazze di Chisinau, mentre centinaia di attivisti hanno bloccato l’accesso nella sede del governo e altre istituzioni dello Stato ai membri della coalizione PS-ACUM. Inoltre, Filip avrebbe fatto approvare il trasferimento dell’ambasciata della Repubblica di Moldova in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, mossa volta a raccogliere il consenso internazionale.
Parallelamente, Maia Sandu e la sua squadra hanno svolto le proprie attività presso la sede del Parlamento, approvando subito la creazione di una commissione per indagare sulle frodi nel sistema bancario. La forte vocazione anticorruzione di ACUM è indice dell’obiettivo condiviso di “deoligarchizzare” la Moldavia. Come affermato dalla premier, “l’obiettivo comune è quello di liberarsi dal regime […] noi abbiamo un orientamento europeista, mentre il PS ne ha uno diverso. Ma abbiamo trovato dei punti in comune per definire il lavoro del nuovo governo. […] vale la pena correre il rischio, se riusciremo a sbarazzarci del regime“. Quanto, in realtà, i socialisti condividano questo obiettivo è piuttosto opinabile. Come sostengono molti analisti, infatti, la bizzarra coalizione sarebbe frutto del mancato accordo tra PS e PDM, con in testa Plahotniuc e Dodon. Proprio quest’ultimo, come mostrato in un video dalla tv controllata dall’oligarca, avrebbe accettato ingenti finanziamenti dal Cremlino e da Gazprom (circa 1 milione di $) a patto di sancire un accordo con il PDM e proporre la federalizzazione della Moldavia (e qui si spiega la presenza di Kozak a Chisinau). Il tutto è stato prontamente smentito e bollato come la solita “macchina del fango“.
QUALI PROSPETTIVE
La minaccia della federalizzazione coinvolge tutti gli attori in campo: i democratici, che usano il tema per screditare la controparte filorussa; la Russia, che potrebbe così porre le basi legali per congelare definitivamente la propria presenza in Transnistria; la vicina Romania, che sulla crisi istituzionale non si è esposta ma che, ad ogni instabilità, sente crescente la pressione migratoria del Paese più povero d’Europa, i cui abitanti hanno spesso la cittadinanza moldava, ma anche quella romena e, quindi, europea.
Sembra che, tuttavia, la situazione si stia molto lentamente placando. Il 15 giugno, il Partito Democratico ha accettato di defilarsi e cedere il potere al nuovo governo PS-ACUM, pur continuando a chiedere nuove elezioni e a riconoscere il nuovo esecutivo come “illegittimo“. Esulta Maia Sandu, Primo Ministro a tutti gli effetti, dichiarando che “la Moldavia ora è finalmente libera“, mentre l’Unione Europea, Mosca e Washington confermano il loro supporto al governo di coalizione, democraticamente eletto.