Sono pochi gli scenari che possono fregiarsi di una bellezza paesaggistica sbalorditiva come quella della Siberia occidentale in autunno. Verrebbe da dire che, molto più che una semplice regione, questa sia una vera e propria metafora della vita – data dal sublime contrasto tra le asperità climatiche e dal pullulare di fauna e flora che vi si sono abituate nei millenni (tra cui il celebre orso bruno). L’estensione geografica della Russia rende quest’ultima un globo in miniatura, con un’invidiabile eterogeneità di biomi. Tuttavia, sono proprio l’ingiallita taiga siberiana e le gelide folate di vento sarma a fornire la cornice più adatta ad uno specchio d’acqua talmente esteso che potrebbe sembrare un fiume – o addirittura un mare.
Si parla del lago Bajkal, per il quale i record si sprecano: è il lago d’acqua dolce più profondo al mondo, il secondo per lunghezza, nonché quello col maggior volume di acqua. Un quinto dell’acqua potabile terrestre proviene dalle acque del Bajkal – che gli jakuti non a caso chiamavano “lago ricco” (Bay göl), e che oggi è la “perla della Siberia“. Una perla riconosciuta come tale anche dall’UNESCO, che nel 1996 ha conferito lo status di Patrimonio dell’Umanità al corso d’acqua percorrente l’Oblast’ di Irkutsk.
Le dinamiche del cambiamento climatico passano, dunque, anche dalla Siberia occidentale. La recente ricerca di un’équipe di geologi e geofisici, nel sottolineare come il Bajkal possa costituire un notevole deposito naturale di idrocarburi qualora venissero effettuati enormi investimenti per la prospezione petrolifera, ha altresì evidenziato come il pericolo di inquinamento del bacino lacustre potrebbe assumere dimensioni esiziali se si modificasse l’ecosistema in questione. Ciò non ha però fermato lo svilupparsi dell’industria nelle immediate vicinanze del lago, ed in particolar modo del settore minerario e di quello del legno. Sino alla fine del 2013, era in funzione la contestata cartiera di Bajkal’sk – la cui presenza sulle sponde del lago fu aspramente opposta dagli ambientalisti per lo scarico di cloro ed altri rifiuti direttamente nel Bajkal. Un gruppo di scienziati ha sottolineato come, ancora oggi, 56 milioni di litri di acque reflue vengano riversate quotidianamente nel fiume Selenga – principale immissario del Bajkal –, in gran parte provenienti dal polo industriale di Ulan-Ude, in Buriazia. Hanno poi suscitato scalpore le immagini che ritraggono il fiume Modon-Kul’, che a sua volta si immette nel Selenga, colorato d’arancione a causa della presenza di tungsteno e molibdeno.
Se si chiedesse al siberiano medio di identificare la minaccia numero uno, però, la risposta avrebbe un nome ed una bandiera: quelli della Repubblica Popolare Cinese. Mentre Vladimir Putin e Xi Jinping stringono accordi e vengono immortalati ilari in foto di rito a San Pietroburgo, in Siberia monta con insistenza il risentimento – quando non proprio l’odio – contro i cinesi “sfruttatori”. La paura è quella che una delle aree più vaste e disabitate del mondo – la Siberia – venga “colonizzata” più o meno subdolamente dal Paese più popolato al mondo. Qualche anziano azzarda paragoni storici tra il fenomeno (attuale) della compera di terreni ed alberghi siberiani da parte di acquirenti cinesi con quello (otto-novecentesco) delle acquisizioni di lotti agricoli da parte degli israeliani nella regione palestinese. Per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno, basta recarsi nell’insediamento di Listvjanka – dove la presenza imprenditoriale cinese è ormai sotto gli occhi di tutti. Pechino viene inoltre accusata di volersi impadronire delle pure acque del “sacro lago”: si fa ivi riferimento al contratto per la costruzione di un impianto in grado di fornire alla Cina 190 milioni di litri d’acqua (del Bajkal) all’anno. Costo complessivo dell’operazione: circa 23 milioni di dollari. Società incaricata: la AquaSib LLC – impresa russa di proprietà cinese.
La costruzione dell’impianto è stata largamente osteggiata da ambientalisti ed opinione pubblica: circa 1 milione e mezzo di persone hanno indirizzato una petizione al Governo per interromperla (oltre a chiedere l’introduzione di un provvedimento ad hoc per impedire ai cinesi di acquistare altra terra). E così, a marzo, una corte di Irkutsk ha ordinato la sospensione della costruzione dell’impianto – in linea con quanto caldeggiato dal premier Dmitrij Medvedev sulla spinta popolare. A leggere le motivazioni ufficiali della sospensiva, sono contestati gravi vizi relativi alla “mancata considerazione per la conformazione naturale […] ed assenza di una valutazione complessiva dell’impatto ambientale dell’impianto“, anche se è lapalissiano ribadire che il diffuso dissenso della popolazione abbia giocato un ruolo di fondamentale importanza. Vale la pena ricordare, poi, come l’Oblast’ di Irkutsk assuma rilevanza politica a causa della sua fama di “regione dissidente”: il governatore non è difatti un rappresentante del partito di Governo (rectius, dei governanti) Russia Unita, bensì il comunista Sergej Levčenko.
Tuttavia, è il contesto a non far ben sperare i siberiani: il Ministero dell’Ambiente russo ha recentemente proposto una modifica al regolamento (del 2010) che disciplina le soglie di tollerabilità delle immissioni nel Bajkal. Non si può fare a meno di notare che la modifica innalzerebbe il tetto massimo di “inquinabilità” di 16 volte rispetto al limite attuale (più del doppio rispetto agli standards dell’UE). La riforma normativa potrebbe quindi inaugurare un atteggiamento di laissez-faire nei confronti del comparto chimico-industriale – anche e(s)terodiretto. Va poi menzionata la proposta di Mikhail Ščapov – deputato alla Duma di Stato – di abolire tout court la valutazione d’impatto ambientale obbligatoria relativamente ai progetti edilizi sulla costa lacustre.
Nonostante a Mosca rassicurino periodicamente sulla strategicità nel lungo termine di una cooperazione intensificata sino-russa (nonché sul complessivo “consenso nazionale” creatosi attorno ad essa), appare sempre più chiaro che la relazione tra Pechino e Mosca si componga anche di elementi estremamente critici, da tenere in conto quando si prefigurano rapporti idilliaci tra i due principali antagonisti dello schieramento euro-atlantico. La Russia ha tutto ciò che servirebbe alla Cina: un territorio immenso e prevalentemente disabitato nonché abbondanza di energia. La Cina ha tutto ciò che la Russia teme: un territorio vasto ma ciononostante densamente abitato nonché relativa scarsità di risorse energetiche. Se sulla terza il do ut des può risultare fruttuoso per entrambi, i primi due punti sono una questione di (al momento solo potenziale) sicurezza nazionale su cui difficilmente il Cremlino rimarrebbe sordo alle bordate cinesi. Una questione che, per assurdo, a lungo andare potrebbe risultare ben più decisiva della “guerra delle influenze” con Bruxelles e Washington.