I tradizionali buoni rapporti tra Roma e Mosca non vedranno un cambio di passo a breve, nonostante i segnali espressi dall’attuale esecutivo italiano. Le fratture delle sanzioni europee e della crisi in Libia non sono state ancora ricomposte, ma a pesare è (e sarà) soprattutto la volontà politica degli Stati Uniti.
Della visita del presidente russo Putin in Italia, avvenuta ieri in poche, intense ore, non resteranno tracce memorabili. In parte per la brevità della sua permanenza, ma soprattutto per l’assenza di novità sostanziali nei rapporti.
In realtà, rispetto all’ultima visita di Putin in Italia – avvenuta nel lontano 2015, in occasione dell’Expo di Milano – il mondo sarebbe cambiato tantissimo. Dall’ascesa di Trump all’intervento russo che ha stravolto la guerra siriana, dall’avanzata dei cosiddetti populismi in Europa al Brexit. Persino dall’ultimo incontro tra i massimi vertici dei due Paesi (la visita di Conte a Mosca dello scorso anno) sono cambiate un po’ di cose. Fra tutte, gli ultimi sconquassi libici e le tensioni americane con l’Iran, che rischiano di travolgere l’accordo sul nucleare.
Dunque, per essere più chiari, non mancano gli elementi di dinamismo e persino di imprevedibilità nelle attuali relazioni internazionali; a mancare è invece la possibilità che l’Italia – e tantomeno il suo rapporto con Mosca – incida realmente negli equilibri più importanti, se non con obiettivi molto limitati.
Nello specifico, e citando la questione forse più importante di tutte, nei rapporti euro-russi – quella delle sanzioni – non vi sono spazi per un cambio di rotta immediato. Almeno su impulso politico di Roma. L’Italia, come tutti i Paesi UE, possiede i mezzi formali per porre il veto all’interno delle istituzioni europee che ormai da cinque anni le rinnovano. E avrebbe persino qualche volontà politica di farlo, almeno a giudicare dalle intenzioni dichiarate da tutti gli ultimi governi in carica. Quel che manca, è la possibilità concreta di agire in tal senso, senza provocare l’ira di Washington e un insostenibile isolamento europeo, molto più duro di quello a cui stiamo credendo di assistere già.
Da parte americana, soprattutto, non verranno più concessi particolari spazi di manovra dopo la famosa vicenda del Memorandum of Understanding siglato con Pechino – peraltro, ironia della sorte, proprio in occasione di un’altra visita di massimo livello a Roma, stavolta da parte di Xi Jinping. Troppi i timori di infedeltà, o di un’eccessiva leggerezza strategica italiana, per tollerare altri scherzi coi rivali orientali della superpotenza. E così, la messa in discussione delle sanzioni (riconfermate già tre volte dall’attuale esecutivo) è ormai fuori da ogni radar politico, almeno in attesa della prossima campagna elettorale in Italia. Putin, ben cosciente di quanto detto finora, non si aspettava di certo altro in questi mesi. E infatti ha quasi glissato sulla questione, un po’ per cortesia istituzionale e un po’ per stanchezza verso un refrain ormai privo di sviluppi alternativi.
Nemmeno sugli altri topic si intravvedono svolte. Lasciando perdere quelli da cui l’Italia è manifestamente esclusa, come l’Ucraina, la Siria e la rinegoziazione dei trattati antimissili, la nostra diplomazia avrebbe invece ancora molto da dire sulla crisi della Libia. Teatro in cui Mosca è da tempo coinvolta, e ormai abbastanza alla luce del sole. L’inclinazione russa è in direzione di Haftar, dunque opposta alla sponda di Roma verso al-Sarraj. Sulla carta, potrebbe esserci comunque un dialogo importante, data la quantità di interessi coinvolti ma soprattutto le recenti sconfitte dell’autoproclamato leader della Cirenaica, che imporrebbero in teoria un ripensamento alle scelte strategiche di Putin.
Ma in realtà al momento non ve n’è traccia. Sia per gli scarni comunicati nel merito successivi al bilaterale con Conte (ma del resto, non sarebbe Roma la sede più consona a far da sfondo per simili colpi di scena), sia soprattutto per l’atteggiamento mostrato finora dalla Russia sulla questione, specie in sede Onu. In questo specifico caso, persino in raro accordo con gli Usa. Secondo alcuni osservatori, le acque comincerebbero a muoversi persino al Cremlino, ovvero in una delle cancellerie mondiali meno inclini a saltare da un cavallo all’altro (come dimostra l’intera vicenda delle primavere arabe). Ma appunto la diplomazia si muoverà più lentamente dei fatti militari sul campo. E ce ne vorrà – se mai accadrà – prima che l’Italia riesca a capitalizzare gli eventuali ripensamenti russi.
Da Mosca, infine, non si guarderà mai all’Italia con la stessa diffidenza che Washington (a ragion veduta) esprime nei nostri confronti. Ma certo non avrà fatto piacere a Putin il dietrofront del governo italiano su tanti temi internazionali, di cui le sanzioni sono solo la punta dell’iceberg. Le ultime posizioni di Roma sull’Iran e il Venezuela, benché non le più centrali nell’agenda del Cremlino, sono segnali preoccupanti di un riavvicinamento italiano agli Usa e di una generale inaffidabilità dei cosiddetti partiti populisti, Lega in primis, con cui il Cremlino sembrava aver avviato una convergenza tattica (se non un vero e proprio legame finanziario). Non lo ricorda ormai più nessuno, ma qualche anno fa, prima dell’ascesa dei sovranisti, la Russia sembrava aver puntato sulle garanzie di sostenibilità offerte da ben altre forze politiche.
Da parte sua, comunque, Putin continua a smentire qualsiasi interesse a parlare con singoli soggetti politici interni agli altri Stati – per i quali, secondo il leader russo, sarebbero previsti soltanto canali di comunicazioni inter-partitici. Al di là della verità sui finanziamenti russi a certi partiti italiani ed europei, Putin deve continuare a difendere la versione di una Russia rispettosa della sovranità altrui. A maggior ragione adesso, con il fallimento delle indagini sul Russiagate in America che sta galvanizzando chi non ha mai creduto alle interferenze di Mosca. Le ultime elezioni Ue sarebbero state dunque fuori dal mirino del Cremlino, e i successi (a dir la verità, eccettuati pochi Paesi, non esaltanti) delle destre euroscettiche sarebbero ascrivibili ad altre cause, perlopiù endogene. Tanto più che molti di questi partiti (specie in Europa orientale) non si riconoscono di certo nella guida putiniana del cosiddetto asse sovranista.
Ma naturalmente, di tutto ciò non vi è traccia formale nei resoconti della visita di ieri a Roma. I rapporti della Russia con l’Italia resteranno buoni ma mai esaltanti – tantomeno determinanti. E prescinderanno dalla vicinanza ideologica dei singoli esecutivi italiani, che potranno distinguersi tra di loro su tutto, ma non sui fondamenti del collocamento internazionale del nostro Paese.
Nel bilancio complessivo della giornata, forse Putin avrà trovato più soddisfazione nell’incontro con Papa Francesco (con il quale, paradossalmente, il confronto geopolitico sembra essere meno angusto) e con l’eterno amico Berlusconi. Che magari gli avrà ricordato tempi più agili, sia per la politica estera russa che per quella italiana.