Per la Russia è il peggior incidente nucleare dai tempi di Cernobyl’ (in Ucraina): basterebbe questo a qualificare quanto avvenuto nella base di Nënoksa. Tra ammissioni e smentite, un esperto ci aiuta a far luce sui fatti dello scorso 8 agosto nella Russia sub-artica.
É passato poco più di un mese da uno degli incidenti nucleari più deleteri della recente storia globale, eppure quanto è avvenuto lo scorso 8 agosto nella base militare di Nënoksa – 30 km a nord-ovest di Severodvinsk, nell’Oblast’ settentrionale russo di Arkhangelsk – sembra essere passato quasi in sordina, tra una smentita ufficiale ed una mezza conferma.
Le prime notizie, frammentate e contrastanti, erano cominciate a circolare già nelle ore successive all’esplosione: in prima battuta, le autorità (civili) di Severodvinsk avevano ammesso un lieve e temporaneo aumento dei livelli di radioattività nella zona circostante l’incidente, per poi essere contraddette dai militari – neganti che il tasso di radioattività fosse anomalo. A meno di una settimana dalla deflagrazione, tuttavia, si è aggiunta la rilevazione da parte dell’agenzia metereologica statale (Rosgidromet). Quest’ultima ha stabilito che, nei minuti immediatamente seguenti lo scoppio del missile, i livelli di radiazione in alcune zone di Severodvinsk hanno superato fino a 16 volte il consueto fondo di radiazioni (informazione in parte corrispondente ai dati delle autorità civili di Severodvinsk), a causa della presenza di una nube di gas nobili radioattivi.
Se i “civili” hanno lasciato intendere che la situazione non fosse poi così sotto controllo come si voleva far credere, la linea del Ministero della Difesa russo – che è poi la stessa sposata dal presidente Vladimir Putin – è rimasta pressoché inflessibile. Sia il dicastero presieduto dal generale Šojgu che il Cremlino hanno difatti sempre negato che si siano verificate contaminazioni radioattive di rilievo. Inter alia, è ipotizzabile che l’attenzione internazionale creatasi nelle ultime settimane sia eufemisticamente poco gradita dal Governo, in quanto rivolta non solo all’effetto, ma altresì alla controversa causa – identificata dai tecnici dell’Agenzia nucleare russa (Rosatom) in un motore missilistico con fonti di energia isotopiche. In buona sostanza, un missile a propulsione nucleare, il cui sviluppo sarebbe ritenuto da Putin in persona di assoluta rilevanza strategica.
Come se non bastasse, anche la Rosatom ha dato la propria versione dei fatti: l’evento sarebbe stato cagionato dal malfunzionamento di un generatore isotopico, ma – si legge – non avrebbe causato il rilascio di gas radioattivi. “Evento” in cui, purtroppo, hanno perso la vita cinque scienziati della Rosatom medesima e due militari, mentre altri hanno riportato ustioni più o meno gravi. Alcuni di questi sono stati repentinamente trasferiti all’ospedale “A. I. Burnazyan” di Mosca, ma due di essi sarebbero deceduti prima di arrivare nella capitale. C’è chi, poi, ha sottolineato come le analisi di salubrità dell’aria non colgano in pieno la potenzialità nefasta del fenomeno, che si è verificato nelle acque della Baia della Dvina – nel Mar Bianco –, ragion per cui sarebbe necessario verificare in concreto il pericolo di contaminazione della flora e della fauna marina circostante.
Altra questione spinosa è quella che in gergo viene chiamata “data availability“, ovverosia l’invio (e la conseguente ricezione da parte dei competenti organismi internazionali) dei dati relativi al monitoraggio delle radiazioni nucleari. Attualmente, nel mondo ne sono attive 80 – due delle quali hanno misteriosamente sospeso la comunicazione dei dati a partire dall’8 agosto. A pensar male si fa peccato… ma caso vuole che siano proprio le due stazioni geograficamente più prossime al luogo dell’incidente di Nënoksa. Ad onor del vero, anche altre stazioni russe nei paraggi hanno avuto “problemi” simili: c’è chi ha smesso, ricominciato, e poi smesso di nuovo di inviare informazioni; chi invece ha adempiuto con notevole ritardo alla comunicazione (senza fornire spiegazioni plausibili).
È sulla base dei summenzionati dati che ha lavorato un team internazionale di scienziati, sotto l’egida dell’Organizzazione del Trattato sulla Proibizione Totale delle Armi Nucleari (CTBTO), con sede a Vienna. Una fonte anonima, interna all’équipe viennese, ci ha svelato una serie di considerazioni sull’incidente di Nënoksa formulate dagli studiosi. A quanto emerge, sembrano scongiurati rischi concreti per la salute umana – considerata la lieve quantità e la breve durata (30 minuti circa) di esposizione. Discorso diverso concerne invece la salubrità dell’ambiente, che pur in mancanza d’indicazioni allarmanti sulla dannosità per flora e fauna, potrà essere compiutamente valutata solo nei prossimi anni. Al momento, tra le tante ipotesi vagliate in merito alla causa dello scoppio, la più verosimile è ritenuta quella di un reattore nucleare miniaturizzato utilizzato come propulsore per il razzo – ma non si esclude che si tratti di un particolare tipo di utilizzo (controverso e d’avanguardia) di nanoparticelle con reazione nucleare a bassa energia.
Sono tanti gli elementi in sospeso, ed ancora di più i dubbi. Ciò che è certo è la valenza politica del fatto e le relative reazioni internazionali, specialmente in relazione alla tempistica dello “spegnimento” delle stazioni di monitoraggio. Su pressione internazionale, la Russia ha risposto che l’invio di dati non è obbligatoria, bensì su base volontaria, dato che la convenzione internazionale sottostante (il Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari) non è ancora entrata in vigore. Un’opinione che non vede però concordi alcuni esperti, i quali sostengono che gli Stati ospitanti ricevono fondi per le stazioni da parte della CTBTO, rendendole a tutti gli effetti stazioni a servizio dell’intera comunità internazionale. Singolare, infine, la posizione della Cina, che non si è praticamente espressa sull’accaduto.
A prescindere dai dettagli tecnici, di notevole importanza è il punto di vista del presidente statunitense Donald Trump. L’inquilino della Casa Bianca ha lasciato trasparire che l’incidente sia collegato alla sperimentazione del 9M730 Burevestnik – un missile da crociera a propulsione nucleare in fase di sviluppo da parte delle forze armate russe, in quanto capace di penetrare agevolmente nei sistemi antimissile nemici. Un’ipotesi che ha alimentato il dibattito tra gli esperti, e che è stata indirettamente confermata dal funzionario russo Aleksei Karpov, il quale ha affermato che l’incidente è una diretta conseguenza della corsa alle armi innescata dal ritiro degli Stati Uniti dal Trattato sui missili anti-balistici (INF) – una corsa nella quale, secondo il Cremlino, la Russia sarebbe comunque in vantaggio (mentre a Washington pensano il contrario).
Non è un caso che Trump abbia poi reiterato le sue “impressioni tecniche” in un episodio analogo che ha coinvolto, a fine agosto, il razzo Safir SLV in Iran. In quest’ultimo caso, “The Donald” ha pubblicato quello che sembra a tutti gli effetti materiale riservato fornitogli dall’intelligence, secondo i commentatori desecretato in maniera piuttosto goffa. A ben vedere, tuttavia, è possibile che sia il caso russo che quello iraniano nascondano una strategia: quella, cioè, di dimostrare che nulla di ciò che accade nel mondo è davvero invisibile agli occhi di Washington. Nemmeno quello che succede a Severodvinsk.