La strategia di consolidamento della propria presenza sul Mediterraneo e in particolar modo nell’area MENA intrapresa da Mosca non trascura neppure un paese piccolo come il Libano, con una popolazione di a malapena cinque milioni di abitanti. L’interesse reciproco nell’intensificazione dei rapporti tra la fu “Svizzera del Medio Oriente” e la Russia traspare dalle numerose visite che hanno visto numerose personalità politiche libanesi recarsi in trasferta nella Federazione.
Per la Russia, il Libano costituisce la propaggine naturale della propria strategia mediorientale, prolungamento dell’accesso mediterraneo che vede il proprio nucleo nella base marina della siriana Tartus, il cui utilizzo Mosca ha ottenuto per quarantanove anni. Ancora più interessati a una fruttuosa amicizia con Cremlino e dintorni sono politici e attori economici (due categorie spesso sovrapponibili) di stanza a Beirut. Rapporti ben saldi con il gigante eurasiatico sono visti con favore dall’intera scena politica libanese. La crescente legittimità di nuovo garante delle sorti mediorientali guadagnatasi dai russi nel ginepraio siriano spinge anche il piccolo Libano tra le braccia di Mosca. Laddove si tratti di attori vicini al regime di Bashar al Asad – come nel caso di Hezbollah – la ricerca di buone relazioni bilaterali è motivata non solamente da amici comuni, ma pure da un afflato anti-statunitense che le recenti sanzioni di Washington a carico di deputati espressione del “partito di Dio” guidato da Hassan Nasrallah alimenta ulteriormente. Anche per i partiti avversi al regime di Damasco, però, Mosca è un partner da tenere caro sul piano politico. Putin e il suo entourage, infatti, costituiscono gli intermediari per eccellenza con il governo siriano laddove si tratti di uno dei dossier attualmente più a cuore dei palazzi del potere beirutini: quello dei rifugiati.
All’incirca un milione di persone in fuga dalla Siria in guerra hanno cercato scampo nel vicino Libano. Nel corso degli ultimi anni, i siriani hanno costituito una risorsa importante per un’economia libanese in crisi semi-permanente. Impiegati come manodopera a basso costo nell’edilizia o nelle costruzioni (realtà già consolidata anche prima dei fatti del 2011, peraltro) e inquilini in un mercato immobiliare punteggiato di alloggi sfitti, i siriani hanno iniettato linfa vitale all’asfittica economia del Paese dei cedri senza ricevere in cambio praticamente nessun diritto, essendo lo status stesso di rifugiato concesso solamente a una minoranza. I politici libanesi hanno egualmente beneficiato della presenza siriana additando la pressione imprevista sulle infrastrutture (che non si vuole qui negare) come capro espiatorio unico e comunemente accettato per l’inefficienza e la corruzione di una classe dirigente non in grado di – né intenzionata a – garantire neppure la fornitura ininterrotta di energia elettrica. Negli ultimi tempi, tuttavia, l’insofferenza montante della cittadinanza e la concomitante “pacificazione” propagandistica sbandierata da Damasco ha rimescolato le carte in tavola. E ora, la parola d’ordine per un amplissimo spettro della politica libanese è il ritorno dei siriani a casa propria. Appunto quest’argomento è stato oggetto delle visite di pezzi grossi libanesi a Mosca, tra cui quella effettuata dal presidente della Repubblica Michel Aoun al proprio omologo Vladimir Putin. Per il primo, premere per il rimpatrio dei siriani significa rispondere alle richieste di larga parte dei propri concittadini e al contempo scongiurare una sedentarizzazione suscettibile di replicare la situazione venutasi a creare con i palestinesi accorsi in Libano a partire dalla fondazione di Israele nel 1948; per il secondo, invece, promuovere l’immagine di una Siria resa a tal punto sicura da poter accogliere nuovamente i propri figli significa apporre il proprio sigillo sul vittorioso ritorno russo in Medio Oriente di fronte alla comunità internazionale.
La Siria è egualmente al centro degli interessi economici che legano Russia e Libano. Esempio di urbanizzazione ipertrofica, straripante di architetti, ingegneri e costruttori nonché vittima della stagnazione immobiliare, il Paese dei cedri – e i suoi potentati economici nello specifico – è oltremodo ingolosito dall’opportunità di ritagliarsi una fetta consistente nella ricostruzione siriana. D’altra parte, il contributo libanese non è disprezzato neppure da Mosca, alla ricerca disperata di investitori stranieri interessati a contribuire alla rinascita di una terra dilaniata da otto anni di conflitto da cui poter guadagnare insieme. La corrispondenza di danarosi sensi tra i due partner in affari coinvolge anche il settore dell’energia. Oltre a offrire il proprio supporto nella risoluzione del dossier dei black out elettrici che affliggono il Libano almeno dalla fine della guerra civile nel 1990, la Russia è attiva anche nelle operazioni di esplorazione dei giacimenti di idrocarburi davanti alla coste del piccolo paese mediorientale. Mentre Rosneft si è garantita la gestione delle infrastrutture di stoccaggio del greggio a Tripoli, Novatek è parte del consorzio internazionale (gli altri componenti sono i francesi di Total e la nostrana Eni) che si è aggiudicato la perlustrazione e il successivo sfruttamento delle risorse individuate sotto i fondali del Mediterraneo. Fondali la cui appartenenza alle propria zona economica esclusiva è oggetto di contesa tra Beirut e Tel Aviv. Non intrattenendo i due rapporti diplomatici reciproci e alla luce dei recenti scontri militari tra Hezbollah e Stato ebraico, Mosca può ambire a un importante ruolo di intermediario nella risoluzione della disputa.
Il rafforzamento delle relazioni tra Beirut e Mosca si esprime anche in altri settori. In ambito commerciale, il Ministro libanese dell’economia si è detto intenzionato a triplicare gli scambi attuali fino a raggiungere il valore di 1,5 miliardi $ annui. Guardando al cosiddetto soft power, poi, i centri culturali russi all’ombra dei cedri sono ormai una decina, varie sono le associazioni che raggruppano libanesi che hanno compiuto gli studi universitari in Unione Sovietica e il legame tra chiese ortodosse dei due paesi è ben saldo.
Quella di Mosca nell’antica culla dei Fenici è quindi una penetrazione irresistibile? Una risposta negativa in merito proviene da Washington.
Il Libano è stato tradizionalmente un vassallo statunitense. L’esercito a stelle e strisce è intervenuto nel paese per ben due volte (nel 1958 e nel 1982), istituzioni come l’Università americana di Beirut sono i centri di formazione delle élites locali, la nuova ambasciata Usa in costruzione è valsa un investimento di un miliardo $, da oltreoceano le forze di sicurezza libanesi hanno ricevuto finanziamenti per 1,7 miliardi $i nella scorsa dozzina d’anni: tutti segni di un attaccamento che rema contro l’annunciato disimpegno statunitense nel Mashreq. L’anno scorso, inoltre, Washington ha giocato un ruolo di dissuasione fondamentale quando venne congelato a un passo dalla firma definitiva un accordo tra Mosca e Beirut nell’ambito della difesa che avrebbe garantito accesso alle basi militari libanesi per le truppe della Federazione e armamenti russi del valore di un miliardo $ da pagare in quindici anni a interessi zero per l’esercito libanese.
Alla luce dell’espansione dell’influenza iraniana nella regione, è improbabile che lo Zio Sam molli l’osso tanto facilmente. Neppure al Cremlino, però, si è disposti a indietreggiare.