Mosca non è mai stata nota per la sua sensibilità ambientale, eppure qualcosa oggi si sta muovendo. Il cambiamento climatico ha aperto qualche opportunità tattica, ma anche molte, troppe incognite. I vantaggi economici e diplomatici di una (graduale) svolta.
Anni di indifferenza, o diffidenza, sul cambiamento climatico. Poi all’improvviso, anzi al culmine della visibilità mediatica delle proteste ambientaliste, il Cremlino ha aperto alla ratifica[1] degli accordi di Parigi sul clima, firmati nel 2016. Un cambio di rotta per certi versi sorprendente, che però – come sempre – ha una spiegazione. Anzi più di una.
Ma facciamo qualche passo indietro. La Russia non è nota per avere una particolare predilezione verso i temi ambientali. Benché sia il Paese più grande del mondo, e conservi al suo interno un patrimonio naturale pressoché senza pari sul pianeta, raramente la sua popolazione o la sua leadership hanno condiviso le preoccupazioni sul degrado ambientale. Che a ondate, a partire dagli anni Settanta, hanno invece investito l’Occidente.
Non è facile stabilire le ragioni di tanto disinteresse. Per alcuni sono puramente culturali (legate cioè al tradizionale fatalismo dei russi), per altri economiche (ovvero riconducibili alla preminenza data alla sopravvivenza degli individui rispetto all’ambiente che li circonda, come in tutti i Paesi che non hanno conosciuto un vero benessere).
Quali che siano le ragioni, l’unica cosa certa è che le proteste ambientaliste in Russia sono state finora poche, e a livello elettorale i partiti verdi non hanno mai raggiunto percentuali degne di nota. Nemmeno l’agenda dei partiti d’opposizione è ricca di riferimenti alla tutela ambientale.
Questi elementi ci fanno giungere a una prima conclusione: l’adesione di Mosca agli accordi di Parigi non sta avvenendo per la pressione dell’opinione pubblica (almeno quella interna). Anche se negli ultimi tempi qualcosa si è mosso, dai primi Fridays for Future alle contestazioni per la scarsa risposta agli incendi siberiani della scorsa estate, le manifestazioni sono state di certo insufficienti a spaventare il regime.
Sono dunque altre le preoccupazioni del Cremlino. In primo luogo, quelle puramente ambientali – appunto. Da un po’ di tempo circola l’allarme che in Russia il cambiamento climatico avvenga più rapidamente del resto del mondo. Per l’esattezza, secondo le misurazioni, le temperature si stanno elevando con una velocità due volte e mezzo superiore rispetto a quella di altri Paesi.
[1] Legalmente non può trattarsi di una vera e propria ratifica, come ha spiegato il primo ministro russo Medvedev. Ma sostanzialmente il processo di adesione russo avrà lo stesso valore giuridico – e politico. Ovvero un atto vincolante.
Fino a poco tempo fa, si coglievano gli aspetti positivi della cosa. Lo stesso Putin, al forum artico di Arcangelo di due anni fa, aveva sostenuto addirittura con ottimismo l’innalzamento delle temperature – aggiungendo peraltro che l’uomo può far poco per contenere il fenomeno. Una fiducia dettata principalmente da quattro fattori: le temperature medie molto basse della Russia, sebbene le spese energetiche (col gas a buon mercato) non rappresentino di certo la prima minaccia per l’economia delle famiglie del Paese; l’ampliamento (sulla carta) dei terreni coltivabili; la progressiva apertura della rotta artica e dei conseguenti benefici commerciali e strategici; la possibilità di maggiori sfruttamenti delle risorse situate nelle aree più fredde del Paese.
Non pochi vantaggi, né insignificanti a dire il vero. Ma a poco a poco, ci si è resi conto della limitatezza di tali risultati, soprattutto se confrontati con le incognite derivanti dal cambiamento climatico. Prima fra tutte, lo scongelamento del permafrost, che rischia di sprigionare sostanze sconosciute e potenzialmente letali (biologiche e perfino radioattive, secondo i report). Il permafrost ricopre oltre la metà del territorio nazionale, ed è chiaro che il suo scioglimento riguarderebbe (riguarderà?) tutto il Paese. Oltre a ciò, i dati relativi all’inquinamento sono poco incoraggianti. Più di 13 milioni di persone vivono in 46 città “altamente inquinate”; Mosca è stata recentemente eletta come la peggior metropoli europea per qualità dell’aria, e in generale la Russia vanta tristemente il quarto posto mondiale tra i maggiori emettitori di gas serra (dopo Cina, Usa e India). Con l’aggravante di avere una popolazione considerevolmente minore rispetto ai tre Paesi che la precedono nel podio.
È chiaro che di fronte a un innalzamento sensibile delle temperature tali problemi andrebbero ad inasprirsi. Così come è in agguato la prospettiva di un aumento dei disastri naturali e dei fenomeni estremi, di cui gli incendi e le alluvioni viste negli ultimi tempi sarebbero solo un assaggio.
Putin probabilmente resta scettico – come una discreta fetta del suo Paese, benché il 55% di esso sia persuaso della causalità umana del cambiamento climatico – sulle misure da affrontare. Del resto, a dispetto dell’adesione agli accordi di Parigi, la Russia non ha ancora elaborato un vero e proprio piano di azione per contrastare quella che si sta profilando sempre più come un’emergenza.
Tuttavia è probabile che nel suo entourage qualcuno lo abbia portato a più miti consigli, o in generale stia spingendo il governo verso un ripensamento delle proprie politiche ambientali – e conseguentemente industriali. Lo scoglio più grande da superare, infatti, non è certo il (presunto, non sapremo mai con esattezza) scetticismo del presidente sulla questione. Bensì il potere della lobby industriale ed energetica, che muove di fatto i fili di tutto grazie alle sue rendite e ai posti di lavoro che garantisce ai cittadini russi.
Non è dunque pensabile che il salto “verde” (o verdino) del Cremlino sia stato concepito e attuato senza il preliminare consenso di chi sostiene lo Stato, politicamente ed economicamente. L’ipotesi più probabile resta quella di un accordo per una riconversione degli impianti più inquinanti (come le centrali elettriche a carbone) in cambio di maggiori sussidi statali. Che a loro volta potrebbero essere garantiti dal maggiore rendimento delle stesse industrie, in un processo virtuoso che vedrebbe tutti vincitori.
Uno scenario troppo ottimistico? Forse. Ma è anche vero che Putin potrebbe sfruttare il momento per provare ad attuare la svolta tanto attesa (e necessaria) per la Russia, quella della diversificazione delle entrate. Sovranista o meno, la Russia non potrà infatti essere veramente autonoma finché non taglierà la sua dipendenza dai prezzi mondiali degli idrocarburi e dalle esigenze dei suoi acquirenti europei (o cinesi). L’avvio di un nuovo corso economico coronerebbe il ventennio di Putin.
Infine, non si dovrebbe sottovalutare l’aspetto diplomatico della vicenda. L’annuncio dell’adesione agli accordi di Parigi è arrivato durante il summit dell’Onu sul clima, dunque nel momento di massima copertura mediatica sul tema. Scelta ovviamente non casuale, ma dettata dall’esigenza di migliorare l’immagine internazionale della Russia (il soft power è anche e soprattutto questo). In più, pronunciandosi a favore delle limitazioni delle emissioni, Mosca prende in contropiede gli Usa di Trump (che hanno più volte fatto intendere di non volerle rispettare) ponendosi come un’alternativa pragmatica e credibile (o almeno aspirante tale) al modello della crescita senza condizioni. Un’evidente strizzata d’occhio ai colleghi europei di Putin, leggi Macron e Merkel, coi quali sta pure trovando un accordo per il futuro dell’Ucraina.
Insomma, l’ambiente può diventare un altro tassello della strategia di Mosca per tornare ad essere un partner dell’Europa che conta (Francia e Germania; non, evidentemente, quella dell’Est). Non torneranno più i tempi dell’amicizia tra Putin, Schroeder e Chirac, ma i segnali distensivi negli ultimi mesi hanno cominciato ad essere molti. E difficilmente ignorabili.