Alcuni di noi avranno sicuramente seguito i recenti avvenimenti in Azerbaijan. La scorsa settimana, e di preciso il 19 ottobre, per le strade del centro di Baku si sono riuniti centinaia di cittadini per protestare contro il regime illiberale di Aliyev, chiedendo le dimissioni e libere elezioni.
L’Azerbaijan ci dà sempre la sensazione di una realtà immobile e fossilizzata nella struttura terribile di uno stato despota, che tutto sommato gode di una certa popolarità e legittimazione tra gli ambienti europei e che basa tale consenso sul settore petrolifero, unica fonte di approvvigionamento delle casse dello stato. Da una parte l’indifferenza europea verso le sistematiche violazioni dei diritti umani, dall’altra un governo ottuso e testardo, che sembra non avere timore dell’alto rischio a cui è esposto il manat, la valuta locale. In certi contesti, vale a dire in cui tutta l’economia dipende da un unico settore di produzione, crisi ordinarie del sistema economico (abbassamento della domanda o calo del prezzo del petrolio e della produzione) possono costituire un vero e proprio shock sia per il sistema economico che politico del Paese.
Spesso mi riferisco all’Azerbaijan di Aliyev come ad una Bielorussia di Lukashenko sul Mar Caspio, in cui qualsiasi canale per esprimere dissenso è stato ostruito con perversi meccanismi da democrazia illiberale: elezioni truccate, soppressione di media che non siano governativi, arresto di leader dell’opposizione, arresto di giornalisti e corruzione dilagante al fine di espandere le ramificazioni del potere di Aliyev nel corpo della giustizia e in quello della sicurezza, sigillando salde alleanze con figure strategiche in questi settori cruciali per il controllo della società civile.
Dal 2005 il governo ha iniziato con gli arresti degli oppositori, nel 2006 con la soppressione dei mass media, nel 2008 è stato il turno di molti giornalisti. È l’anno in cui Khalil, un giornalista di Azladiq, molto critico del regime e che indagava sulla corruzione, è stato minacciato più volte fino ad essere picchiato e in un secondo momento accoltellato. Tra il 2013 e il 2015 sono stati arrestati alcuni noti attivisti, come Rasul Jafarov, Leyla Yunus e Khadija Ismaiylova.
Il 2014 ha segnato uno spartiacque nella storia dell’opposizione azera, a partire dal quale è iniziata la pagina più nera della breve storia di questo paese. Infatti, in quell’anno si assiste ad una durissima repressione dei media indipendenti e delle organizzazioni non – governative. Viene varata una legge con cui si inaspriscono drammaticamente i procedimenti per fondare una ONG, per cui tutt’oggi si deve ricevere l’approvazione persino del Ministro delle Finanze e del Ministero della Giustizia.
È da mesi che osservo molto da vicino la situazione in Azerbaijan, dove ho trascorso diversi mesi. Devo ammettere che rispetto agli anni passati, qualcosa sembra essersi messo in moto proprio recentemente. Anche se non si può ancora constatare un cambiamento in superficie (le elezioni continuano a non essere libere, l’economia quasi interamente nazionalizzata e l’opposizione esclusa dai circuiti decisionali), i germi di un cambiamento sono ormai stati piantati.
Queste proteste sono state diverse per due ordini di motivi: in primo luogo, si è assistito ad un livello di violenza da parte delle forze dell’ordine come mai successo almeno dal 2005. Ci sono diversi filmati che testimoniano la brutalità degli agenti di polizia, che non ha risparmiato nemmeno donne ed anziani, come si evince da questo video, pubblicato sulla TV online indipendente Meydan TV. Il leader dell’opposizione, Ali Karimli, è stato fermato ed arrestato dalle forze dell’ordine mentre si recava al punto di raduno. In quest’altro video è possibile constatare la violenza con cui è avvenuto l’arresto. Lui e molti altri dissidenti, inclusi politici e giornalisti, sono stati portati in caserma e una volta usciti dopo diverse ore hanno mostrato segni di violenza su diversi parti del corpo. Anche Tofig Yagublu, altro esponente di spicco dell’opposizione, è stato arrestato e torturato e si trova ancora in stato di arresto al momento dell’intervista. Seymur Hazi, anche lui vittima dei recenti arresti, è l’ennesimo giornalista dell’opposizione che viene arrestato in Azerbaijan.
In secondo luogo, la manifestazione di questo ottobre è stata diversa per l’ingente numero di partecipanti che vi hanno preso parte. Nel gennaio di quest’anno vi è stata anche un’altra manifestazione che ha avuto un esito imprevisto per i manifestanti, che con gioia hanno potuto contemplare il successo dell’evento. Meno contento è stato il governo, che ha dovuto fare i conti con un malcontento sempre più diffuso tra la popolazione.
Per capire meglio i fattori scatenanti di questa corrente di cambiamento, ho deciso di intervistare uno degli attivisti che ha partecipato alla manifestazione. Ho conosciuto Tural Aghayev durante il mio soggiorno a Baku la scorsa primavera. Durante il nostro primo incontro mi raccontò della prima manifestazione che ha avuto luogo quest’anno, quella di gennaio. La manifestazione ebbe luogo nello stadio, dunque un po’ fuori dal centro della città. Bisogna premettere che in Azerbaijan è impossibile organizzare una manifestazione nel centro della città perché le autorità municipali sistematicamente negano questa possibilità. Di solito, viene dunque dato il permesso per organizzarle in distretti molto fuori dal centro, difficilmente raggiungibili, questo per disincentivare le persone a prendervi parte. Si può dire che in quel gennaio gli attivisti furono in grado di trovare una sorta di compromesso con le autorità municipali, in quanto lo stadio ha una certa capienza e può accogliere una grande quantità di persone. E forse, le autorità non si aspettavano un così grande successo. I giorni successivi, molti attivisti che avevano partecipato furono convocati in diverse caserme della città. Anche Tural ricevette una telefonata in quei giorni. Il suo volto era stato identificato dalle videocamere poste in diversi angoli dello stadio. Quello che è successo a lui è stata una vicenda comune a molti attivisti. Una volta convocato, la polizia cercò di intimidirlo, di fare pressione psicologica, domandandogli ripetutamente “perché mai avesse voluto prendere parte a quella manifestazione? Che cosa voleva ottenere?”. Infine, gli agenti di polizia cercarono di ammonirlo e di scoraggiarlo a fare ulteriori dimostrazioni di dissenso contro il governo.
La seconda grande manifestazione è poi arrivata questo ottobre. Questa volta le autorità si sono guardate bene da aprire le porte dello stadio ai manifestanti e hanno concesso loro al massimo uno spazio Lokbatan, un distretto molto lontano dal centro. I manifestanti non si sono arresi ed hanno deciso di chiedere l’autorizzazione per fare una sorta di flash mob nel centro, un cosiddetto “picket”, a cui possono di norma aderire un massimo di 50 persone. In questo modo sono riusciti ad ottenere il consenso per radunarsi. Gli attivisti non si sono fatti scoraggiare dal limite imposto e, pubblicizzando l’evento sui social, hanno invitato altre persone ad aderire al flash mob come “osservatori”. Il 19 ottobre li aspettava uno degli scenari di repressione peggiore che si fosse visto negli ultimi anni: la stazione del 28 Maggio – centro della città – era stata completamente bloccata ed erano decine e decine le pattuglie di polizia schierate, pronte a dare addosso alla folla al primo segnale di “resistenza ad un pubblico ufficiale”.
Da quel momento in poi, moltissimi manifestanti sono stati circondati e “buttati” nelle auto della polizia con gesti violentissimi e poi portati in caserme della città molto lontane dal centro. Sono una trentina gli arresti durante il giorno della manifestazione. Secondo Tural, se però si contano gli arresti anche prima della manifestazione, le multe e le minacce, si arriva a diverse centinaia di vittime.
Ancora non sappiamo bene a cosa ci troviamo di fronte, se davvero è l’inizio di un cambiamento o se è solo l’ennesimo tentativo di stabilire la democrazia da parte della popolazione azera, che farà si paura al governo ma non rovescerà le sorti del Paese. Siamo pur sempre di fronte ad una democrazia illiberale che pur con la democrazia alle porte (specialmente dopo la Rivoluzione di Velluto in Armenia) può contare su un forte sostegno dell’Occidente, soprattutto grazie ai legami commerciali. In questi casi, bisogna considerare non solo l’elemento della legittimazione interna ma anche quella esterna. In altre parole nessuno dal di fuori fornirà l’attenzione mediatica e un canale democratico ai manifestanti e per loro sarà davvero difficile conquistarli se non a prezzi altissimi. In ogni caso una cosa è certa: in questo momento l’immobilismo dell’Azerbaijan sembra leggermente oscillare sopra alcune crepe ed è il momento giusto per osservare lo stato caucasico, che più degli altri presenta le potenzialità per una vera e propria svolta.