Armenia
In Armenia, la Convenzione di Istanbul, elaborata in seno al Consiglio d’Europa, rappresenta un punto di riferimento per i movimenti femministi, che ne chiedono la ratifica. La Convenzione fu approvata ad Istanbul nel maggio del 2011 e da quel momento, solamente 33 stati su 46 l’hanno ratificata, con Russia ed Azerbaijan che non risultano nemmeno tra i firmatari. L’Armenia è tra i 46 stati che hanno approvato la convenzione. Benché sia un paese firmatario dal 2017, non l’ha ancora ratificata.
Riassumendo, la Convenzione si fa promotrice di maggiore uguaglianza di genere e il contrasto agli stereotipi di genere, un maggiore impegno dello stato ad investigare i casi di violenza domestica ed infine l’implementazione di servizi di assistenza alle vittime.
In Armenia, da qualche anno opera il centro di supporto per le donne, un’organizzazione che cerca di sopperire ai mancati servizi statali per la protezione delle vittime di violenza di genere. Nel 2010, ovvero all’inizio della sua attività, il centro riceveva non più di 50 denunce ogni anno e ad oggi il numero si aggira intorno a 2000, sebbene riesca ad accogliere solo sedici donne per volta. Un aumento di violenza nelle pareti domestiche? Niente affatto. La verità è che una rete sociale solida ha frantumato un enorme tabù della società armena: la considerazione della violenza di genere come “questione privata”. Una mentalità che ha costretto migliaia di donne a chiudersi in se stesse, accettando il loro stato di subalternità come una realtà incontestabile, sentendosi colpevoli demolitrici dell’infrangibile equilibrio familiare qualora andassero a denunciare l’accaduto. Persistono anche le barriere di natura economica. Lo schema sociale che esige la donna relegata al ruolo della gestione della casa e dell’accudimento dei figli e l’uomo a quello di breadwinner, condanna il genere femminile alla dipendenza finanziaria dal proprio marito.
Alla scarsa protezione concessa alle vittime, si aggiunge la depenalizzazione di chi ha commesso la violenza. Solitamente, per questi la pena si esaurisce in pochi anni di carcere o nel pagamento di una multa. È quanto successo al marito di Hasmik Khachatryan, riuscita a scappare di casa e a denunciare il marito, il quale tuttavia ha trascorso un tempo minimo in prigione grazie ad una somma di denaro pagata alle autorità dalla sua famiglia. In un altro episodio, il giudice ha condannato Volodya Muradyan, colpevole di aver ucciso la moglie Diana Naapetyan, a soli tre anni e mezzo.
Eppure, il contenuto della convenzione continua a dividere il popolo armeno: tra gli oppositori alcuni partiti – tra cui Armenia Prospera, il Partito Repubblicano e anche My Step Alliance, del Presidente Pashinyan – e la Chiesa Apostolica. Secondo molti, la Convenzione mette in discussione il modello di famiglia tradizionale armena, inculcando a forza nella società categorie quali “terzo genere”, “matrimoni gay”, “adozioni gay”. In realtà si tratta di mere manipolazioni, in quanto il testo non riferimento a nessuna di tali categorie. Si parla piuttosto del riconoscimento di unioni civili, ma con lo scopo di considerare partner punibile penalmente l’uomo, inteso come compagno e non solo come marito. Un punto essenziale quest’ultimo, considerando che la legislazione attuale riconosce come “coppia” solamente quella sposata, con la conseguente indifferenza per tutti gli atti di violenza compiuti in contesti extraconiugali.
Le resistenze si attestano anche sul piano della politica estera. Una prima argomentazione è che la stessa Convenzione sia uno sponsor della Turchia, o un imposizione dell’Europa che finirebbe per ribaltare i valori tradizionali del paese. Sofya Hovsepyan, parlamentare del partito My Step Alliance, ha condannato la pagina Facebook Voice of Violence, che ha la funzione di blog in cui tutte le vittime possono condividere le loro esperienze ed aiutare altre donne ad uscire allo scoperto e raccontare le loro storie. Secondo la parlamentare, si tratterebbe di una campagna finanziata dall’Europa per spingere il governo a ratificare la convenzione. Una lettura superficiale questa che, tuttavia, avvicina diversi politici in maniera trasversale, indipendentemente dalla rappresentanza partitica. Eduard Sharmazanov, del partito repubblicano, qualche mese fa ha incitato su Facebook i suoi followers a firmare una petizione contro la ratifica. Gevorg Petrosyan, di Armenia Prospera, si è detto preoccupato per il contenuto della convenzione in contrasto con i valori tradizionali.
Azerbaijan
Nonostante le tensioni in politica estera tra Armenia e Azerbaijan, è interessante notare come di questi tempi stesso tipo di lotte sociali accomunano le rispettive società. I dati relativi alla violenza non sono rassicuranti nemmeno per l’Azerbaijan: più di 100 donne ogni anno muoiono a causa della violenza domestica ed il 43 % delle donne nel paese sono soggette ad episodi di violenza, secondo le statistiche di Avvocati per i Diritti Umani. In Azerbaijan la violenza si estende al di fuori del rapporto coniugale, in quanto gli abusi provengono anche da altri membri della famiglia.
Il movimento femminista in Azerbaijan è molto recente: la prima manifestazione femminista è avvenuta solamente l’8 marzo di quest’anno, senza autorizzazione delle autorità. Verso i primi di ottobre l’ennesimo episodio ha nuovamente risvegliato le coscienze di una parte della popolazione: una giovane donna è stata uccisa dal marito con 25 colpi, in una strada, davanti al loro figlio e sotto gli sguardi dei passanti. Da quel giorno un gruppo di femministe azere ha lanciato la campagna #QadınaŞiddətəYox (No alla violenza contro le donne). Oggetto delle richieste anche in qui la firma e la ratifica della Convenzione di Istanbul. Il 20 ottobre, alcuni attivisti si sono riuniti intorno alla statua della poetessa azera Natavan, nel centro di Baku, per una seconda marcia volta alla sensibilizzazione della popolazione, con la costante e asfissiante presenza delle forze di polizia che si ostinano a non concedere l’autorizzazione per questo tipo di manifestazioni. In quel caso la motivazione è stata: “disturbo della quiete pubblica“. E viene da chiedersi: disturba più di un episodio di violenza in cui una donna viene colpita a morte in mezzo ai passanti?
Russia
Alle proteste in Azerbaijan fanno eco quelle dalla Russia, che come l’Azerbaijan, non ha nemmeno firmato il testo. Come per l’Armenia, le relazioni internazionali pesano: la decisione di non firmare la Convenzione elaborata in seno al Consiglio d’Europa riflette l’aggravamento dei rapporti con l’Europa. In ultimo, ma non per questo secondario, il ruolo della Chiesa: “dietro al pretesto di proteggere i deboli si annida l’intento di distruggere la nostra società e la famiglia”, è quello che si legge in un report della commissione della Chiesa Ortodossa russa. Il numero di vittime della violenza domestica fa rabbrividire: 8500 vittime di omicidio per mano di mariti, amanti o parenti. Secondo i dati del Ministero degli Interni, nel 2012 ci sono stati 34 000 casi di violenza domestica. Un numero che va a duplicarsi nel 2016 e che va a restringersi nel biennio 2017 – 2018. Ancora una volta, non bisogna farsi ingannare dalle statistiche: nel 2017, infatti, è passata una legge sulla depenalizzazione dei reati per violenza domestica, vale a dire che adesso la violenza di genere, non considerato più reato, è punibile con il pagamento di una multa.
Proprio per negligenza e la superficialità con cui, anche in Russia, si affronta il problema, non vengono previste delle misure di protezione per le vittime, come ad esempio delle strutture di accoglienza.
Nel 2018 il casi delle tre sorelle Khachaturyan, ha fatto emergere un acceso dibattito. Le sorelle, rispettivamente di 17, 18 e 19 anni, sono al momento sotto processo e rischiano fino a vent’anni di carcere per uccisione del padre. Da anni, erano vittime di violenza, come accerta anche la testimonianza della madre delle ragazze, a sua volta vittima di abusi e minacce di morte dall’ex marito.
Nell’agosto del 2019, un uomo di Votkinsk, nella Russia centrale, è in regime di libertà dopo aver ucciso la moglie di fronte al proprio figlio di cinque anni. Secondo la decisione della corte, si sarebbe trattato di un “crimine di passione”. Un altro giro di parole che consiste nel solito verdetto ripetuto in tutte e tre gli stati: se ti picchia è perché ti ama.
È quest’ottusa ed assurda formula, ripetuta nelle medesime circostanza in tutte e tre le società, che autorizza le autorità a disinteressarsi ad un’evidente piaga sociale. Ed è proprio questo immobilismo superficiale ad uccidere ogni donna due volte. Nel novembre del 2018, una donna di Orel è stata colpita a morte dal marito. La donna si era lamentata già con le forze dell’ordine in passato, ma era stata sbeffeggiata: sarebbero tornati per l’autopsia se così stavano le cose.
A fronte di questi tristissimi episodi, anche in Russia si è un movimento analogo a quelli di Armenia e Azerbaijan, atto a promuovere l’introduzione del reato di violenza domestica. La firma della Convenzione di Istanbul è fuori discussione, ma, dopo tre anni dalla depenalizzazione, si potrebbe approvare una nuova legge, sulla proposta avanzata dal Consiglio per diritti umani e sviluppo della società civile. La stessa proposta di legge, non si allontana troppo dai contenuti della Convenzione di Istanbul: l’introduzione della categoria di violenza domestica, creazione di misure di sicurezza e servizi per le vittime di tale violenza, e il riconoscimento del diritto alla legittima difesa.
I movimenti femministi sono diventati il filo rosso che accomunano le società di tre stati, sebbene le dinamiche sociali interne vengano offuscate dai reciproci di rapporti di realpolitik. Se da una parte prevalgono le ostilità, i nazionalismi e soprattutto gli antagonismi dettati da questioni di sicurezza, ponti alternativi di cooperazione possono essere costruiti tra le società. La solidarietà femminile e la parità di genere, in questo caso come non mai, dovrebbero dimostrare di non conoscere confini.