Parte I – La grandezza del passato: crisi e ritorno
Ormai vicini al trentennale della Federazione Russa, nata nel 1991 dalle ceneri dell’URSS, da venti anni un solo uomo è al centro della vita politica, culturale e sociale della Russia; un ventennio di Vladimir Putin alla guida del Paese ha segnato notevoli mutamenti in ogni ambito. Molte di queste trasformazioni sono intimamente legate all’idea di Russia che Putin ha voluto forgiare nel corso degli anni, con notevoli risvolti sia sul piano nazionale, che sulla proiezione internazionale della Federazione.
Consideriamo dunque cosa era la Russia post-sovietica dei primi anni Novanta: un gigante in frantumi, segnato da un durissimo periodo di transizione dall’economia pianificata al libero mercato, in crisi perenne, con il rublo fortemente svalutato, disoccupazione e criminalità aumentate vertiginosamente, un intero sistema politico e sociale da ridefinire e numerose altre sfide alla propria integrità, guerra civile in Cecenia su tutte. È evidente quanto profondo possa essere stato questo trauma per un mondo regolato capillarmente da 70 anni di socialismo reale che, pur con tutti i suoi limiti, garantiva entro i suoi confini ordine e stabilità, idealizzati con il ventennio brežneviano.
Cosa rappresenta, dunque, la Russia di cui Vladimir Putin assume la guida il 31 dicembre 1999 come presidente ad interim, dopo le dimissioni di Boris El’cin? Per molti osservatori esterni è solamente un vecchio spauracchio, un impero in costante rovina, incapace di costituire qualsivoglia minaccia, destinato nel giro di pochi anni a finire nell’orbita dell’Occidente, direzione seguita da El’cin, Gajdar e Kozyrev. Nella mente del popolo russo, resta invece fortissima la percezione materiale del passato, (stabilità, sicurezza, benessere modesto, ma diffuso) nonché quella idealizzata, della superpotenza sovietica capace di competere con il nemico capitalista, diventata quasi “servile” verso l’Ovest. Quello della Federazione Russa è un popolo deluso, sfiancato, in crisi d’identità, in cui trova sempre più sostegno l’equazione democrazia = instabilità = povertà.
Su questo nucleo di principi, frustrazioni e ideali, Vladimir Putin inizia molto gradualmente a plasmare un solido sistema di valori che orienti il consenso e, di conseguenza, la politica di rinascita nazionale ed internazionale della Russia. Una tattica ben oculata, che sfrutta importanti eredità post-sovietiche. Nonostante il caos degli anni Novanta, Mosca disponeva ancora di: un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza ONU e, quindi, il potere di veto sulle risoluzioni; un ampio arsenale atomico; un consistente export di armi, tecnologie militari e personale tecnico, benché ridotto rispetto al passato; il possesso e la ricchezza delle estese riserve di fonti energetiche. Tutti fattori estremamente rilevanti e decisivi per il ritorno alla grandeur anelato da Putin.
2000 – 2008: il lento ritorno di Mosca sullo scenario internazionale
- Riscoperta – Nel caotico contesto descritto sopra, le concezioni di Evgenij Primakov condizionano ed aprono la strada alla visione estera putiniana. Diplomatico affermato, Ministro degli Esteri (1996-98) e Primo ministro (1998-99), Primakov promuove una nuova idea di Russia nello scenario globale, una concezione pragmatica, westfaliana, di una grande potenza sovrana in un mondo anarchico e frammentato, in cui il potere e la forza rimangono l’ultima ratio delle relazioni internazionali. Una visione che va a costituire il nucleo della strategia di politica estera russa di Putin e Lavrov, che la sposano appieno e ne integrano alcuni aspetti negli anni. Sul finire degli anni Novanta, la Russia si ritrova dunque in una posizione più assertiva, meno incline al compromesso, oscillante tra l’idea di riconfermarsi potenza globale e quella di costruire un blocco anti-egemonico nei confronti della potenza statunitense. I deržaviki, sostenitori dello status di “grande potenza“, e i gosudarstvenniki, promotori della forte centralità dello Stato e del governo, assumono così le redini della politica estera russa.
- Realismo – La strategia internazionale di Putin è molto lenta e graduale; molti analisti considerano il primo mandato (2000-2004) come uno studio saggio e ponderato della situazione globale, rivolgendo la massima attenzione sul fronte interno e sulla ferita cecena. Mosca mantiene una certa passività, osservando le evoluzioni in atto e riducendo al minimo ogni confronto con l’Occidente; secondo Putin, la cooperazione internazionale è lo strumento migliore per raggiungere gli scopi del Cremlino e recuperare l’influenza perduta. I tragici eventi dell’11 settembre 2001 offrono l’occasione di mostrare questo rinnovato pragmatismo nelle relazioni estere. Putin bilancia la propria libertà di manovra sullo scenario globale e il saldo controllo del Cremlino, decidendo di supportare esternamente l’azione statunitense contro il regime talebano di Kabul, senza il coinvolgimento diretto delle truppe russe sul campo afghano. Così facendo, il Cremlino ottiene vantaggi su tre fronti: eliminare la minaccia terroristica, che da anni rappresenta una spina nel fianco per Mosca, senza sparare un colpo; ottenere il silenzio-assenso statunitense sulla gestione del conflitto ceceno; approcciarsi ad un possibile ingresso nel WTO.
- Affermazione – Gradualmente la circospezione lascia spazio ad un maggior decisionismo. In questo passaggio, il realismo di Putin si fa forte del notevole sviluppo economico che sta testimoniando il Paese, con tassi di crescita del PIL tra il 4 e l’8% tra il 2001 e il 2008. Un incremento dovuto essenzialmente alle riserve energetiche e agli alti prezzi del mercato, che garantiscono enormi introiti alle casse statali russe e un generale miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, con conseguente rafforzamento del consenso. Già nel 2003 Putin mostra una crescente autonomia, criticando l’intervento USA in Iraq e qualsiasi altra “esportazione della democrazia“; si riscontra un’opposizione meno timida alle azioni occidentali, una “resurrezione dell’istinto imperiale“, di ambizioni rinate grazie alla stabilità politico-economica domestica. L’approccio più risoluto di Mosca comporta anche un aumento delle spese militari, nell’ottica di una vasta modernizzazione dell’apparato militare; per voce dell’allora Ministro della Difesa Ivanov, il “pieno recupero dello status di grande potenza, che comporta responsabilità globali per la situazione del pianeta e per il futuro della civiltà umana“. Simbolo del grande ritorno della Russia è indubbiamente la Conferenza sulla politica di sicurezza a Monaco di Baviera (2007), la summa dell’evoluzione della politica estera russa del nuovo millennio. Forte dell’espansione economica dei BRICS e dei fallimenti statunitensi in Medio Oriente, Vladimir Putin sostiene espressamente il superamento del mondo unipolare post-1989, “un modello non solo inaccettabile, ma anche impossibile“. Tra i numerosi temi trattati, figurano di primaria importanza: la necessità di un sistema internazionale effettivamente multipolare e non egemonizzato; le critiche al complesso di sicurezza globale tradizionale e alle sue istituzioni, tra cui l’ONU (che necessita di riforme) e l’OSCE (in cui la Russia si sente sottorappresentata); il rifiuto dell’espansione della NATO in Europa orientale, inutile al suo ammodernamento e alla sicurezza europea. L’indipendenza della politica estera è la caratteristica trasversale della storia russa, che il paese sembra così aver recuperato dopo la parentesi degli anni Novanta: la maggior assertività, il decisionismo, il peso della grande potenza sono restaurati.