Pur scivolando in secondo piano negli ultimi anni di dibattito sul jihadismo, la problematica dei foreign fighters si è riconquistata le luci della ribalta soprattutto a partire dallo scorso marzo. Fu allora che le Forze democratiche siriane a maggioranza curda e guida statunitense terminarono vittoriosamente l’assedio di Baghouz, cittadina siriana sulle rive dell’Eufrate in prossimità del confine iracheno. E, tangenzialmente, ultimo baluardo dello Stato Islamico in terra di Siria. La presa di Baghouz ha segnato la fine – sulla carta – delle aspirazioni califfali a una realtà statuale dotata di una propria dimensione territoriale. Come il persistere di attacchi nella regione confermano, tuttavia, la sconfitta sul terreno della creatura di al Baghdadi non ha al contempo determinato il tramonto della campagna jihadista dei suoi discepoli. Anzi, a presentarsi è stato anche il dilemma riguardante il destino dei combattenti stranieri rimasti orfani del loro sogno jihadista, alcuni finiti nei campi profughi di forze curde incapaci di gestirli e altri dalle sorti ancora ignote. Nei paesi di origine dei foreign fighters, intanto, tremano le vene ai polsi di governanti ancora incerti sul da farsi tra il pugno duro e un atteggiamento simil-pilatesco (si pensi al caso dei combattenti francesi che Parigi si è vista condannare a morte da un tribunale iracheno).
Il ritorno di propri cittadini vittime della radicalizzazione costituisce un dossier scottante anche per la Russia e il fu “Sovietistan” musulmano in Asia centrale. La presenza della violenza jihadista nella regione – ben chiara ai governi locali- è tornata alla ribalta internazionale nell’estate del 2018. Allora, l’uccisione di quattro ciclisti occidentali in Tajikistan venne rivendicata dai portavoce dell’Isis, malgrado le autorità di Dushanbe l’avessero strumentalizzata attribuendola a una compagine d’opposizione, il Partito della rinascita islamica.
In sostegno dello Stato Islamico e di altre formazioni jihadiste nel Levante siro-iracheno (come Jabhat al Nusra prima e Jabhat Fatah al-Sham poi), sono accorsi da più di centodieci paesi oltre 40 mila combattenti. Di questi, il contributo più corposo verrebbe proprio dalle regioni musulmane un tempo parte dell’Urss. Vista la palese sensibilità politica, le stime in merito variano significativamente. Si va da 8700 combattenti dall’ex spazio sovietico – di cui circa 3500 dalla Federazione Russa, soprattutto dal Caucaso settentrionale (Cecenia e Daghestan) – a un totale oscillante tra i 5000 e i 7000 citato da Putin stesso un paio di anni fa in un riferimento collettivo a ex “Stan” sovietici e Russia, con quest’ultima che avrebbe esportato tra i 4000 e i 5000 cittadini verso il Mashreq. Stando alle dichiarazioni rilasciate dai rispettivi governi tra il 2015 e il 2017, il contributo dei vari paesi in termini di soldati per il jihad sarebbe di almeno 360 turkmeni, 500 kirghizi, 400 kazaki, 1000 tagiki e 200 uzbeki.
Nella regione, come altrove nel mondo, si assomigliano le ragioni della radicalizzazione. Benché fattori importanti, povertà, ignoranza e profonda fede non giocano il ruolo principe nel percorso intrapreso dai futuri jihadisti. Spesso questi ultimi sono rampolli di famiglie benestanti e hanno beneficiato di un’educazione superiore alla media dei loro concittadini in cui la religione ha giocato un ruolo oltremodo marginale. Questo fenomeno di iniziazione al fondamentalismo è stato definito dall’islamologo Olivier Roy come “islamizzazione del radicalismo” in contrapposizione a una “radicalizzazione dell’Islam“. Scaturigine dello stesso, infatti, non è un’esasperazione intransigente dell’afflato religioso, quanto piuttosto un senso di ingiustizia e insoddisfazione che trova nell’Islam una sorta di paludamento e valvola di sfogo.
Dimostrazione ne sia che, in genere, proprio coloro i quali conoscano meglio la religione, i suoi testi e i suoi precetti sono largamente immuni alle chimere del radicalismo. La sensazione di rifiuto e rigetto da parte della società fa sì che il reclutamento di futuri combattenti trovi terreno fertile non solamente in realtà marginali – economicamente come il Mezzogiorno agricolo del Tajikistan, oppure etnicamente, al pari delle regioni kirghize popolate perlopiù da uzbeki – ma anche nella diaspora. Nello specifico, studi hanno evidenziato come gran parte dei combattenti centrasiatici siano stati ingaggiati da predicatori jihadisti proprio in contesti di immigrazioni quali quello turco o ancor più in Russia, dove vivono circa sette milioni di cittadini originari delle repubbliche ex sovietichea maggioranza musulmana e la diffidenza nei loro confronti da parte della comunità ospitante è estremamente diffusa.
Il flusso di combattenti centroasiatici e nordcaucasici dalle terre d’origine verso il campo di battaglia siriano e iracheno può essere scandito – pur generalizzando – in tre ondate. La prima risale al biennio 2011-2012, quando a imbracciare le armi sull’onda dello scoppio della crisi siriana furono veterani della guerra civile tagika (1992-1997) e degli scenari di battaglia pakistani, afghani e ceceni. In principio, l’opposizione sunnita a Bashar al Asad era estremamente frammentata e il maggior elemento di coesione interna ai vari gruppi era la comunanza linguistica. Tra il 2012 e il 2014, la costellazione di gruppi jihadisti si coagula attorno ad alcune organizzazioni più numerose (ad esempio Jabhat al Nusra o lo stesso Stato Islamico) e a esserne attratti sono soprattutto foreign fighters centroasiatici basati per lavoro in Russia e Turchia e senza alcuna pregressa esperienza guerresca. A partire dal 2014, infine, la proclamazione del Califfato rappresenta la concretizzazione di una “terra promessa” per i musulmani, alla cui tentazione cedono intere famiglie intenzionate a farsi una nuova vita e non necessariamente ad abbracciare con le armi il messaggio jihadista.
Varie sono le personalità dello spazio ex sovietico ad aver fatto carriera nelle fila dello Stato Islamico, grazie soprattutto alla loro esperienza militare pregressa. Tra questi figurano Akhmed Chatajev, Omar al Shishani e Golmurod Khalimov. Ucciso a Tbilisi nel 2017, Chataev assurse a uno dei principali recrutatori dello Stato Islamico in Siria e è il principale sospettato per la pianificazione dell’attentato all’aeroporto Ataturk di Istanbul nel 2016. Georgiano di origini cecene, al Shishani percorse il cursus honorum califfale fino alla guida del ministero della Guerra prima di essere ucciso durante un bombardamento aereo statunitense. Successore al dicastero dopo la scomparsa di al Shishani è stato nominato infine l’ex capo della polizia militare tagika colonnello Golmurod Khalimov, la cui morte annunciata nel 2017 non ha trovato ancora una conferma definitiva.
Ciò che la sconfitta quantomeno territoriale del califfato e la più recente campagna militare turca nella Siria nordorientale hanno tuttavia messo di fronte i foreign fighters centroasiatici a un interrogativo sul proprio futuro: che fare dopo la caduta del sogno dello Stato Islamico? E che fare dopo un’eventuale liberazione dal giogo curdo laddove esse soccombesse definitivamente all’avversario turco? Un’opzione è la partenza verso nuovi lidi. Essi includono zone in pace dove rifarsi una vita o terreni di battaglia dove continuare il proprio jihad. Tra le prime spiccano la Turchia e l’Ucraina occidentale, con quest’ultima favorita per ragioni linguistiche e di facile reperibilità di documenti falsi; tra le seconde la destinazione principe è l‘Afghanistan, dove sono già presenti all’incirca 8000 combattenti stranieri provenienti perlopiù da Pakistan, Uzbekistan e Tajikistan.
Temuto infine dal Cremlino e dalle varie cancellerie regionali è il ritorno in patria. Benché un contro-esodo di massa sia improbabile visto il pugno di ferro adottato da paesi come Kirghizistan e Tajikistan che permette loro di togliere la cittadinanza a chiunque sia imputabile di legami con Isis e alla luce del costo non indifferente da pagare ai passeur per varcare inosservati i confini siriani e iracheni, il rientro dei combattenti è lo spauracchio di governi che rischiano di raccogliere una tempesta fondamentalista dopo averne seminato il vento. In tal senso si può leggere l’operato dei Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa (gli Fsb eredi del Kgb) che, in vista delle olimpiadi di Soci nel 2014, pare abbiano facilitato a cittadini in odore di estremismo il passaggio alla volta di Siria e Iraq. Quegli stessi cittadini che ora potrebbero tornare e continuare in patria la missione lasciata in sospeso nel Levante.