Antiamericano e al tempo stesso filo-Trump. Il presidente russo nega interferenze oltreoceano con la stessa disinvoltura con cui appoggia, a parole, il suo omologo statunitense. Ma il disegno del Cremlino, contrariamente alle apparenze, è profondamente logico e sta bene in piedi nella nuova versione asimmetrica del vecchio scontro bipolare.
Negare un’interferenza non è essa stessa l’interferenza? Probabilmente sì, se la risposta alle accuse prevede un sostegno implicito a una delle due parti in causa.
Gli endorsement di Putin a Trump fanno discutere, dividere, riesumare dietrologie apparentemente sepolte con il buco nell’acqua del rapporto Mueller. E se tutto sommato potevano apparire lineari nei primi mesi di amministrazione dell’inquilino della Casa Bianca, non lo sono più a tre anni dal suo insediamento, con uno scontro bipolare riacutizzato e portato ai massimi livelli su tutti i fronti, dalle sanzioni per la Crimea al boicottaggio del Nord Stream.
Difficile, per i russi, scagionare Trump da tutte le azioni ostili provenienti da Washington: il Congresso Usa resta e resterà contro Mosca, ma la Casa Bianca avrebbe potuto ritagliarsi un margine di manovra che praticamente non si è mai visto. Qualcuno, addirittura, è arrivato a rimpiangere Obama: protagonista di una parabola simile (dal tentato reset delle relazioni, nel 2008-2010, al più duro regime sanzionatorio) ma quantomeno più prevedibile nelle sue intenzioni e azioni.
Eppure, giovedì scorso, alla conferenza stampa di fine anno, Putin è tornato a difendere Trump dalle accuse interne. Anche se questa volta la Russia non c’entra, almeno direttamente – nel mirino dei Democratici vi sono i rapporti del tycoon newyorchese con la vicina Ucraina. Nella stessa occasione, il leader del Cremlino non ha lesinato critiche al deterioramento del rapporto bilaterale: la cancellazione del Trattato INF ne è stata forse l’esempio più eclatante, in questi anni turbolenti. E il suo principale artefice, John Bolton, non proveniva certo da Marte, nonostante il suo successivo siluramento dai ranghi dell’amministrazione repubblicana di Trump.
Con una scelta ardita, ma non priva di una sua logica, Putin ha accomunato il Russiagate (più noto in America come Russia Probe) al più fresco Ucrainagate per il quale Trump è appena finito sotto procedura di impeachment. Non c’è bisogno di elencare tutte le differenze tra i due casi: in sostanza, il primo è stato il tentativo di dimostrare le ingerenze di una potenza straniera all’interno della politica Usa, mentre il secondo testimonia un processo esattamente inverso, ovvero la pressione statunitense nei confronti di un altro Stato (per di più alleato). Dando inoltre per scontata la sua non-separazione tra poteri interni (presidenziale di Zelenskij e giudiziario) nonostante tutta la retorica sul sistema democratico ucraino.
In tutto ciò, Putin vede – e denuncia apertamente – un disegno unico, che rientra nello scontro tra la Casa Bianca e gli altri apparati: il tentativo di contrastare Trump con tutti i mezzi. Mezzi che nel sistema statunitense di pesi e contrappesi peraltro non scarseggiano. Fallito il Russia Probe, ecco un’altra mossa che prova a mettere fuori gioco il presidente Usa e il suo (presunto) tentativo di riconciliarsi con Mosca. Poco importa, nel ragionamento di Putin (e dei sostenitori di Trump), che la seconda accusa si stia dimostrando ben più solida della prima. E che derivi, nei fatti, da un’iniziativa diretta e personale dell’inquilino della Casa Bianca.
Entrambe le versioni hanno un fondo di verità: gli errori e le manipolazioni (indubbie) di Trump si trasformano facilmente in armi per i suoi avversari, all’interno di una sporca guerra senza esclusione di colpi. La Russia, oggetto (e soggetto) del contendere, resta centrale. E fa la sua parte. Consapevole di non aver mai avuto così tanta influenza (diretta o indiretta) nel dibattito pubblico americano, almeno dai tempi del maccartismo.
Il paradosso di Putin, dunque, è solo apparente. Il leader russo non sostiene Trump bensì il proseguimento di una guerra interna che indebolisca la potenza rivale. Se non militarmente, almeno nello spirito.
Poco importa, infatti, se la difesa di Trump ha l’effetto (prevedibile) di infiacchire lo stesso presidente americano, soggetto al giudizio di un’opinione pubblica interna largamente ostile alla Russia. L’intenzione di Putin non è di far prevalere la componente presidenziale su tutto il resto. I russi sono ben consapevoli dell’impossibilità di tale impresa, vista la resilienza degli apparati e la parabola geopolitica dei due giganti, pressoché destinati a scontrarsi nel lungo termine.
Meglio (o senz’altro più alla portata) prendere tatticamente le parti dell’attore più debole della contesa – mossa vecchia forse quanto la politica estera russa – e dar l’impressione di poter condizionare l’opinione pubblica americana in maniera addirittura determinante. Anche se a tutt’oggi, a tre anni dalle famigerate presidenziali del 2016, non vi è alcuna reale prova di uno spostamento di voti dalla Clinton a Trump grazie alla disinformazione made in Russia.
Sembrare forti e temibili, in una società globale sempre più influenzata dalle apparenze, equivale quasi ad esserlo. E alla fine, quindi, chi continuerà a ingigantire il ruolo della Russia potrebbe diventare il suo migliore alleato.