Vent’anni al vertice, tra presidenza e premierato: Vladimir Putin ha sperimentato la guida della Russia in tutte le sue sfaccettature. La visione del potere e i rapporti con gli altri organi dello Stato. L’incognita della liberalizzazione.
Di biografie sull’attuale presidente della Federazione Russa, come pure di libri, riviste, articoli scientifici, saggi, documenti e quant’altro, sono pieni scaffali e biblioteche. Per comprendere appieno l’ultimo ventennio di storia russa, si deve pensare a Vladimir Putin al di fuori degli schemi con i quali si è abituati a pensare parlando di un capo di Stato. Questo soprattutto perché diverso era il condizionamento sistemico al momento della sua consacrazione al vertice nel 1999. Vent’anni durante i quali la verticale del potere in Russia è stata profondamente ristrutturata, seguendo un perfetto schema logico votato all’elaborazione di alcune direttrici principali, così riassumibili: interesse nazionale, duttilità rispetto ai condizionamenti extra sistemici e conseguente capacità adattivo-strategica.
Al momento della sua ascesa, Vladimir Putin si poteva definire pressoché sconosciuto. Sebbene infatti il suo bagaglio di competenze, maturato all’interno dei ranghi dei comitati di sicurezza sovietici, lo rendesse una figura perfetta al compito che doveva essere svolto in quel preciso momento, in pochi avrebbero puntato sulla sua figura. La sua capacità di giostrare gli equilibri di potere è stata il vero motivo di un’ascesa così fulminante [1].
In seguito al decadimento della Russia dal ruolo di superpotenza mondiale, la crisi economica del 1998 – che aveva portato la neonata Federazione a conoscere la più cruenta faccia del libero mercato [2] – rese necessario un cambio, forse la sfida più grande di El’cin. Putin dunque si presentava alla volta del nuovo millennio come un cosciente e ponderato sostenitore delle politiche di integrazione con gli Stati Uniti [3], non potendo fare altrimenti. Ma al tempo stesso consapevole della necessità di applicare una certa dose di pragmatismo, senza cadere però nella bruma delle metodologie di retaggio sovietico [4]. Ciò di cui c’era bisogno nel 1999 era una personalità che conoscesse bene le dinamiche interne, ma che potesse rinsaldare i rapporti tra diversi vettori di potere [5].
Al momento del suo insediamento, la questione preminente era certamente data dai problemi economici, seguiti ad un periodo di politiche interne fallimentari – cominciato a sua volta nel 1991, quando si erano cercati obiettivi pretenziosi in tempi rapidi [6]. A inizio anni Novanta, la sfida era stata infatti quella di riformulare non solo la vita dei cittadini, ma un’intera economia secondo logiche completamente differenti – quelle del libero mercato. Ne era seguito un completo fallimento di politiche economiche: la carenza di fondi in vari settori e la totale mancanza di chiarezza politica avevano creato le basi per la realizzazione di un sistema di tangenti e forte corruzione. La necessità di ottenere risultati in maniera veloce, con un sistema simil-liberale, ma di fatto senza regole, permise in quegli anni a molti criminali di toccare il mondo dell’alta finanza e degli investimenti. Il risultato condizionò in negativo l’economia russa per un decennio [7].
Infine, gli eventi. Gli attacchi terroristici verificatisi a partire dal 1996 generarono nell’immaginario della popolazione, nonché dello stesso presidente El’cin, la necessità di porre in primo piano le questioni di sicurezza. Era chiaro nel 1999 che la scelta del suo successore avrebbe determinato il destino della Russia verso una ripresa o un definitivo collasso.
Per comprendere i rapporti di forza tra il presidente e gli altri organi della Federazione, fondamentale è conoscere la struttura della Costituzione approvata nel 1993.
Essa consacra infatti una forma particolarmente accentuata di presidenzialismo come paradigma per l’esercizio del potere. Il presidente (o super-presidente) è affiancato da due camere, la Duma di Stato e il Consiglio Federale, e dall’Amministrazione Presidenziale. Allo stesso tempo la carta sancisce un sistema per cui gli organi esecutivi federali e gli quelli dei soggetti insieme formano il potere unitario del sistema amministrativo della Russia [8].
“Ristabilire la verticale del potere”, uno dei motti preferiti da Putin nei suoi primi mandati, significava, sulla traccia del dettame costituzionale, ricostruire un sistema burocratico che fosse anche efficiente. Così dal 2000 si provvide a raggruppare in soggetti federali (sette) le 89 regioni autonome (poi divenute 83). La centralizzazione era un tema fondamentale già dal ’97 con Cernomyrdin prima e Stepašin poi, ed ebbe con Putin la necessaria continuità. Quest’ultimo perseguì l’obiettivo di intensificare l’unione e la dipendenza della periferia verso il centro della Federazione. Per fare ciò negli anni vennero varate leggi che circoscrissero le libertà economiche e fiscali delle regioni autonome, mentre gli amministratori distrettuali furono posti alle dipendenze dei ministeri centrali, del governo e dunque del presidente.[9]
Luci ed ombre, in senso democratico, si stagliano sulla scia delle amministrazioni di Vladimir Putin. Le politiche di raddrizzamento della deriva interna hanno portato con sé questioni delicate rispetto a trasparenza e libertà. I famosi oligarchi, che negli anni si erano appropriati di grandi appalti e settori strategici della Federazione, vennero tacciati politicamente come nemici delle istituzioni, con l’obiettivo di porre completamente in mano allo stato il redditizio settore energetico e il non meno importante settore delle comunicazioni. L’idea era quella di migliorare il caotico mondo delle concessioni governative seguite agli anni del crollo dell’Unione Sovietica, quando grandi quantità di servizi strategici e di interesse nazionale vennero ceduti alle mani di personalità provenienti dal mondo del vecchio apparato del Pcus. La maniera con cui venne perseguito tale obiettivo di ripulitura fu comunque piuttosto selettiva e zelante, e la magistratura aggredì discrezionalmente taluni soggetti piuttosto che altri. D’altro canto, non ci fu scrupolo in molte occasioni a mettere giornalisti ed attivisti fuori gioco (sebbene sia necessario notare che i collegamenti fra esecutori e mandanti politici non è mai stato provato del tutto). È il caso di Babickji, Nikitin e della Politkovskaja, quest’ultima freddata sul portone di casa da ignoti mentre lavorava a un dossier sulle atrocità commesse in Cecenia. Altra questione che agli occhi del mondo decretò Putin come un illiberale, fu quella delle Ong, le organizzazioni che perseguono scopi umanitari o di tutela ambientale, che in Russia videro limitati i loro poteri e che più volte furono al centro dell’attenzione della stampa internazionale.
Ciononostante, il gradimento nei confronti del presidente non sembrò arrestarsi, anche per le forti prese di posizione negli anni della lotta al terrorismo. Un presidente tecno-populista, almeno nei primi mandati, che non si è limitato a fare politica e ristabilire l’economia.
Fondamentale è stato il rapporto con gli apparati di comunicazione di cui lo Stato si era riappropriato, e nondimeno con la Chiesa Ortodossa, la quale tramite un concordato con il governo assicurò che non vi fossero intrusioni indebite di altri credo. Così una recuperata liturgia, assieme a una certa idea di identità e tradizione, rinvenute dal buio sovietico, sono state ingegneristicamente piegate alla necessità di costituire un nuovo senso civico, una nuova appartenenza ad una Russia sempre più grande. Complici i progressi economici, dopo le sofferenze del primo decennio post sovietico, la popolazione ha potuto quindi ritrovare sotto le varie amministrazioni di Putin un senso di fiducia nelle istituzioni, garanti dell’ordine pubblico e di una ritrovata (apparente) legalità e dell’ordine pubblico, perfino con qualche riscatto internazionale. La Russia tornata grande ha visto in Putin l’artefice del suo successo. Ciò, ovviamente, ha garantito nel tempo l’esistenza di una base certa di sostenitori alle urne, assicurando al presidente ben quattro mandati [10].
In questo contesto l’alternanza con Dimitrij Medvedev, che deve essere prima di tutto inquadrata in un progetto di continuità comune alle prerogative di interesse nazionale, si basò sul mantenimento delle buone relazioni tra i due. Ciò avrebbe significato un’apertura al liberalismo, che però in una fase di ritrovata stabilità avrebbe potuto anche significare, secondo gli strateghi del Cremlino, essere soggetti ad influenze esterne, specialmente lungo i confini della Federazione. Di fatto, nella dottrina militare della Federazione Russa approvata proprio da Medvedev, si annida il presupposto per gli eventi del 2014: il ritorno della Crimea in Russia altro non è che la messa in pratica della logica alla base dell’approccio della Federazione Russa alla politica estera, che in questa situazione di crisi svolge tutte le sue funzioni: proteggere il popolo russo, evitare l’aggravarsi dei conflitti armati, proteggere i suoi interessi regionali [11]. Si deve inoltre sottolineare che Medvedev fu l’artefice del proprio destino quando apportò modifiche alla costituzione, su proposta dal presidente alla Duma, nel settembre 2008: gli anni di legislatura della Duma furono portati a cinque e quelli di mandato del presidente a sei. Gli elettori si sentirono presi in giro poiché di fatto, estendendo il numero di mandati, la discontinuità con Putin si rivelò, almeno agli occhi del popolo russo, come una semplice parentesi in un architettato sistema di (ri)stabilizzazione del potere.
Per concludere, nella figura qui in alto si rappresenta quello che ha significato il ventennio del presidente al potere per la Federazione Russa. Le frecce verdi rappresentano le direttrici usate da Putin per (ri)stabilire il potere. Quelle blu raffigurano l’alternativa scelta da El’cin nel suo progetto di incentivare le relazioni con l’Occidente. Il cerchio rosso, infine, è il livello ottimale verso cui dovrebbe volgere, a parere dell’autore, lo sviluppo delle politiche del prossimo futuro, per ristabilire i rapporti con l’Occidente, specialmente dopo gli eventi in Ucraina.
Ma poiché le previsioni non sono mai certe, resta da comprendere come Putin saprà giostrare le questioni di rilievo per il restante mandato in corso, anche se non sembrano esserci sorprese, per quanto la continuità sia forse il più sorprendente degli enigmi. Putin contempla l’interesse nazionale come prerogativa di sviluppo per ogni azione politica, ma un sistema che si basa su di esso ha necessariamente bisogno di continuità, che fino ad oggi è stata il cavallo di Troia per tutti gli sfidanti. La vera questione è se e come un’eventuale liberalizzazione verrà accolta e integrata in un futuro prossimo da un sistema tanto dipendente da una figura singolare ed unica come Vladimir Putin.
di Francesco Cappelletti
Note:
[1] Una minuziosa catalogazione degli eventi riguardanti biografia e ascesa del Presidente russo è quella di RoyMedvedev. In R. MEDVEDEV, “ВремяПутина” (Il tempo di Putin), Ed. Время, Mosca, 2014
[2] B. PINTO, S. ULATOV, ‘Financial Globalization and the Russian Crisis of 1998’, Washington: The World Bank, 2010
[3] Gore ecc
[4] A. P. TSYGANKOV, Russia’sForeign Policy: Change and Continuity in National Identity, Fourth Edition, RI, 2016
[5] P. SUTELA, “The Financial Crisis in Russia”, Bank of Finland, BOFIT, Helsinki, 1999;
[6] L. GUDKOV, V. ZASLAVSKY, “La Russia postcomunista. Da Gorbaciov a Putin”, Luiss University Press, Roma, 2005
[7] G. CHIESA, “Russia addio, come si colonizza un impero”, Editori Riuniti, Roma, 1997
[8] F. CAPPELLETTI, “Explaining Russian-Western Relation, an Italian model approach”, MGIMO University, Moscow, 2019; pp.131-145
[9] F. BENVENUTI, “Russia Oggi”, Carocci Editore, Roma, 2014; pp. 82-90
[10] Ibid. F. BENVENUTI, 2014
[11] D. MEDVEDEV (approved by) The President of Russian Federation, “The military Doctrine of the Russian Federation”, 5-II-2010; Art. 8 (Online: https://carnegieendowment.org/files/2010russia_military_doctrine.pdf)