Un bilancio in chiaroscuro, con una transizione economica e sociale opaca compensata da notevoli successi internazionali. Solo il futuro potrà dirci quale interpretazione prevarrà.
Quanto sarà corposo il capitolo “Vladimir Putin” nei futuri libri di storia russa? E cosa riferirà a chi era troppo piccolo per ricordare i primi venti (anzi, ventiquattro) anni del XXI secolo?
Certamente un siffatto arco temporale non potrà essere derubricato a una piccola parentesi storica, nemmeno tra un secolo. Soprattutto se questi due decenni appartengono a un’epoca come la nostra, i cui cambiamenti si sviluppano con una velocità inedita.
Ciò che occorre piuttosto capire, o almeno tentare di prevedere, è se la Russia di Putin apparirà ancora ai nostri nipoti come un Paese risorto dalle sue ceneri, come vorrebbe la vulgata corrente. Oppure se sarà vista come l’ultimo battito d’ali di un impero giunto al capolinea. O ancora, se verrà riletta come un Paese in una mera fase di transizione verso nuovi equilibri (quali?).
Parlare di futuro è estremamente difficile per lapalissiani motivi. Nessuno può prevedere cosa accadrà nei prossimi anni, tanto più se il soggetto di riferimento è la Russia, per definizione indecifrabile. Anche soltanto per quel che concerne la mera successione di Putin al soglio del Cremlino, che avverrà fra soli quattro anni, i movimenti sono piuttosto oscuri e le ipotesi le più disparate.
L’unica possibilità di guardare agli ultimi anni con gli occhi della storia anziché dell’attualità è quella di allargare il campo visivo, inglobando una prospettiva storica che sveli gli elementi ricorrenti nelle vicende e nella mentalità del Paese.
Già qualche tempo fa, per i lettori di Osservatorio Russia, avevamo analizzato alcune costanti tra la politica estera dell’attuale Federazione e quella del vecchio impero zarista. Sulla questione vi sono pochi dubbi: l’impronta russa si manifesta con una certa costanza sia in epoche diverse, sia in presenza di regimi della più varia composizione ideologica. Le analogie naturalmente non riguardano soltanto il campo dei rapporti internazionali, ma attengono anche al senso del potere, al dilemma dell’appartenenza euro/asiatica, al culto del leader supremo, alla priorità del prestigio politico sul rendimento economico dello Stato. In sintesi, alla visione del mondo dei russi.
Da qui possiamo individuare alcune delle costanti che continueranno a caratterizzare (o a interrogare) la Russia anche ben al di là della permanenza al potere (o anche della vita stessa) dell’attuale presidente Putin. La Russia potrà anche fallire in senso economico e amministrativo, tuttavia la sua idea non solo continuerà ad esistere, ma sarà abbastanza forte da garantire l’esistenza di uno Stato unitario (almeno per i russi etnici) ancora per molto tempo a venire. Le inevitabili spinte centrifughe, nei territori di confine, probabilmente verranno a galla, e sicuramente a Putin verrà riconosciuto di averle sapute frenare durante la propria leadership. Ma non dovrebbero intaccare secoli di nation-building, grazie ai quali decine di etnie diverse hanno finito per riconoscersi in un’entità statale unitaria – poco importa se nominalmente russa o meno, anche in epoca sovietica a comandare erano Mosca e la sua nazionalità storicamente dominante.
Persino nei momenti più difficili la Russia è riuscita a mantenersi integra. Se non territorialmente, almeno nella sua idea. Nessun altro Paese, in Europa, ha rischiato così tante volte la dissoluzione come la Russia. Restando al solo Novecento, la Rivoluzione e l’umiliazione di Brest-Litovsk, il Terrore staliniano e l’invasione nazista, il disfacimento dell’Urss e la bancarotta di fine secolo (non è affatto un caso che ognuna di queste due coppie di eventi sia cronologicamente vicina). La capacità non solo di sopravvivere, ma di rilanciarsi dopo tali colossali urti è stata tale, da rendere la resilienza russa un tratto distintivo della sua stessa identità. E naturalmente, un suo punto di forza senza paragoni.
Per questo ci sentiremmo di escludere l’ipotesi più estrema, quella di un dissolvimento della Federazione russa, in seguito alla successione di Putin. Ma resta comunque altamente probabile che, alla fine di questa parabola storica, assisteremo a un certo ridimensionamento del Paese da lui guidato.
Delle tante nuvole nere che si addensano all’orizzonte russo, le più scure sono quelle economiche, ambientali e socio-politiche. Con un occhio anche alla questione demografica.
Putin si compiace di esser passato alla storia per il suo sostanziale salvataggio dell’economia russa, che almeno per i primi due mandati ha costituito uno zoccolo duro del suo consenso. In realtà è ancora dibattuto il reale impatto delle politiche governative sulla ripresa della Federazione: la rapida crescita dei prezzi degli idrocarburi, nei primi anni Duemila, sicuramente ha aiutato molto le casse di uno Stato così dipendente da essi. Non a caso, il loro prezzo nuovamente precipitato nel 2014 ha messo in luce la vulnerabilità della Russia. Qualcuno ha persino paragonato Putin a Brežnev: entrambi avrebbero mantenuto in vita il Paese per merito di congiunture esterne, più che per propria abilità. Entrambi, benché indiscussi fautori di una stabilità del sistema, l’avrebbero man mano degradata a stagnazione. Vittime e al tempo stesso responsabili di un modello di (non) sviluppo che vede la preminenza del complesso militare-industriale su ogni altra voce dell’economia e della produttività.
Ma ancor più che i bassi tassi di crescita del Pil, o di qualsiasi fluttuazione del rublo, a rendere incerto il futuro della Russia è la questione ambientale. Sulla quale Putin si è dimostrato ondivago, o nel migliore dei casi solo tardivamente consapevole. Proprio il complesso militare-industriale di cui sopra, unito naturalmente alla lobby dell’estrazione e del commercio di idrocarburi, ha frenato le principali conquiste delle energie rinnovabili. Nel merito del riscaldamento globale, non sono molto chiare le opinioni del presidente: di certo però quest’ultimo ha dovuto tener conto di quelle dei suoi apparati, schiacciate almeno fino a poco tempo fa su posizioni negazioniste o comunque non ostili agli effetti della rivoluzione climatica. “Qualche grado in più non farà male a un Paese così freddo”, questo il refrain della classe dirigente del quarto emettitore di gas serra al mondo. Peccato che il riscaldamento, oltre alla vantaggiosa rotta artica, schiude anche parecchi pericoli come lo scongelamento del permafrost – e i suoi effetti potenzialmente letali sull’intera popolazione russa, e non solo. La Russia di Putin potrebbe passare alla storia per aver ratificato gli accordi di Parigi, oppure per essersi accorta troppo in ritardo di ciò che le stava accadendo attorno (e all’interno). Dipenderà proprio dagli sviluppi del cambiamento climatico in corso.
La quarta rielezione di Putin, nel marzo 2018, ha coinciso anche con il suo record di consenso politico: il 77% di voti ottenuti nella tornata costituisce certamente l’apice del riconoscimento dei cittadini russi per il suo operato. Ma non è durato molto. Pochissimi mesi dopo, già in estate, il presidente rieletto si è trovato ad affrontare una delle sue più gravi crisi d’immagine in seguito all’approvazione della riforma pensionistica, grandemente discussa. A nulla è servito programmarla in coincidenza dei Mondiali di calcio, disputati in casa: la rabbia delle persone ha investito persino le piazze. Da quel momento in poi, la popolarità del presidente non è più tornata ai livelli precedenti. E l’impressione è che non avverrà più: troppa la stanchezza sociale verso sacrifici, ritardi e inefficienze, troppo scarsa la risposta dall’alto. Gli assegni in bianco sono finiti. Anche qui, una doppia tesi: Putin voleva e poteva (può ancora?) passare alla storia per aver riconciliato la Federazione coi suoi cittadini, che all’alba degli anni Duemila non ne potevano più di deregolamentazioni ed esperimenti socio-economici. Ma potrebbe essere rimasto troppo a lungo dentro il Cremlino, fino a diventare anche lui parte del problema.
Quanto all’incubo demografico, pur tenuto in grande considerazione da Putin, non pare essere determinante nell’equazione del declassamento del Paese. La Russia sembra essersi ormai stabilizzata a una quota leggermente inferiore ai 150 milioni di abitanti. Certamente pochi, o pochissimi, se confrontati ai giganti demografici del pianeta – primo fra tutti la confinante Cina – ma sufficienti a tener vivo lo Stato o a difenderlo da qualsiasi minaccia. Del resto, se da una parte è vero che i primi allarmi europei di una minaccia russa derivavano proprio dalla sua crescita demografica galoppante (nel XIX secolo), dall’altra è pur vero che nessun tracollo delle varie forme di Stato russo è mai stato causato direttamente dagli shock demografici – se si eccettuano quelli delle purghe staliniane, dirimenti per il primo successo dell’invasione nazista ma solo nella misura in cui colpirono i quadri dell’Armata Rossa.
Sul piano delle relazioni internazionali, è noto, Putin ha ridato lustro a un Paese in ritirata – se non in rotta – su tutti i fronti. Qui il bilancio non può che essere positivo, e tale sicuramente rimarrà anche nei prossimi decenni. Anzi, vi è persino la possibilità che l’acume strategico di Putin venga ancora più esaltato in considerazione degli scarsi mezzi in possesso di Mosca, materiali e immateriali: la ristrettezza delle finanze russe (e persino dei suoi bilanci militari, imparagonabili a quelli statunitensi), unita alla relativa scarsità del suo soft power, di certo non poteva garantire i brillanti risultati poi ottenuti. Putin verrà ricordato per aver sfruttato al meglio le poche frecce nella sua faretra.
Probabilmente toccherà soltanto ai suoi successori scendere veramente a patti con gli Stati Uniti, rinunciare alla velleità di mantenere la Russia un peso massimo della politica mondiale (tranne che per gli armamenti nucleari, che rimarranno intatti a lungo proprio in simile funzione), ritagliarle un ruolo più consono al peso della sua economia. Mosse che provocheranno grandi turbamenti nei russi, e forse porteranno questi ultimi a invocare nostalgicamente i fasti dell’epoca putiniana – un po’ come oggi si celebrano i tempi sovietici, dimentichi di tutte le relative disfunzioni.
Molto, è chiaro, dipenderà da chi verrà dopo: il nostro sguardo sulla storia sarà sempre viziato dalla contingenza del presente. Il ventennio di Putin potrà essere immortalato come quello della rinascita o come quello dell’illusione di un’impossibile ripresa, a seconda dell’abilità, politica ma anche narrativa, di chi gli succederà nel 2024. A riprova della dura legge della storia, o meglio della storiografia. In ogni caso, a meno di prossime catastrofi o di imperdonabili errori, Putin manterrà una notevole base di rispetto – non necessariamente equivalente al consenso politico – tra i suoi cittadini, elettori o meno. E il putinismo sopravvivrà al suo ispiratore.