I nuovi strumenti del controllo sociale passano per la Rete. La sfida degli Stati è vincolare quest’ultima alle proprie esigenze. E la Russia si sta muovendo.
Oggi quasi tutto è in Rete e la Rete è quasi dappertutto. Le comunicazioni politiche, economiche, finanziarie e sociali, e anche questo articolo, solcano le immateriali onde di Internet e la capacità degli Stati di connettervi sempre più settori sta gradualmente divenendo misura della loro modernità. A tale esito non sfugge il comparto militare e securitario, tanto che si è coniata l’espressione Fifth Domain, la frontiera cyber della guerra e del controllo sociale del futuro. Ogni struttura di potere statuale coniuga il controllo del territorio e delle comunicazioni sociali ai fini di preservare la collettività e se stesso, adottando ogni mezzo a tali scopi.
Oggi gli strumenti di controllo sociale potenzialmente più pervasivi ed efficaci utilizzano i bit della Rete, monitorando e immagazzinando i dati anagrafici e le conversazioni di un’intera popolazione: dimmi cosa clicchi e a chi e ti dirò chi sei. Una banale logica porta all’impellente necessità per qualsiasi governo di porsi la questione del controllo, se non addirittura della proprietà, della Rete fisica domestica e dei punti di approdo dei dati, i server. L’architettura di Internet fu ristrutturata a metà degli anni ’90 dagli anglo-americani ed oggi è sempre più chiaro che fu fatto con lungimiranti intenti di egemonia geopolitica ed economica.
Alla luce di quanto sopra, risultano comprensibili gli sforzi di Paesi di Cina, Iran, Francia e Germania per avere il comando (“sovranità” sarebbe il termine più appropriato, ma troppo, ahinoi, ideologicamente compromesso di questi tempi) dell’infrastruttura della rete nazionale (reti fisiche di comunicazioni interne e filtri che ne permettono l’accesso all’/dall’esterno) e la Russia non è stata da meno. Dietro le interessate grida d’allarme occidentali sulla “libertà della navigazione in Rete” e sulla “censura” si cela la lecita preoccupazione dei governanti russi sul fatto che i loro domini web dipendano da un ente allocato ad Amsterdam, il RIPE: in caso di dissidi tra i due paesi la minaccia che tutti i siti “.ru” possano scomparire con un click sarebbe più che un’eventualità. La Russia, dunque, si sta attrezzando per evolversi dalla dipendenza estera dal protocollo DNS (Domain Name Server, dove vengono “storati” in ultima istanza i dati) e BGP (Border Gateway Protocol, i criteri di instradamento dei dati tra i vari server). Il controllo di Yandex, il principale motore di ricerca e fornitore di servizi di posta elettronica nella Federazione (il Google russo), rientra in questa politica e in tale contesto strategico nazionale. Yandex e il Cremlino hanno concordato i punti che seguono: 1) la creazione di una fondazione speciale nella “zona economica libera” nell’Oblast di Kaliningrad che acquisterà la “Golden share” di Yandex da Sberbank (cosa che consente il blocco di tutte le operazioni anche solo con il 10% o più di partecipazioni); 2) cinque degli undici seggi nel consiglio di amministrazione del fondo saranno assegnati ai rappresentanti delle università con cui Yandex collabora, tre posti ai vertici dell’azienda stessa e i restanti tre ai rappresentanti delle istituzioni pubbliche; 3) al fondatore e CEO di Yandex, Arkady Volozh, è vietato vendere le sue azioni fino al 2022, tramite il trasferimento del suo pacchetto azionario (pari a ben il 50%) ad un fondo fiduciario familiare.
Sarebbe fuorviante suggerire che Yandex stia subendo un processo di nazionalizzazione. Semplicemente, lo Stato russo negli ultimi vent’anni ha capito che basta ottenere il privilegio di bloccare ogni possibile tentativo di vendere un asset importante come Yandex a un investitore straniero. Il nuovo accordo istituzionalizza anche la capacità del governo di censurare le ricerche su Internet e la sua prerogativa di esaminare le e-mail e le transazioni finanziarie dei clienti di Yandex. A discapito di quel si possa pensare della Russia, gli oligarchi non sono affatto spariti, anzi prosperano come non mai in un paese che vede l’indice di Gini in peggioramento inesorabile dagli anni ’60 (quindi anche nell’era Putin): vent’anni fa è stato raggiunto un equilibrio che tutt’ora resiste, in cui si permette agli oligarchi di sfruttare le risorse del paese (ed esportare i proventi in paradisi fiscali esteri, come Cipro, per poi farli rientrare sotto veste di “investimenti diretti esteri”, magari godendo di apposite agevolazioni), ma lo Stato non tollera concorrenza in settori strategici, quali politica, sicurezza militare e media.
L’assalto dell’FSB alla sede di NTV, allora rete dissidente del magnate Vladimir Gusinsky, l’11 maggio 2000, mostrò al mondo quali linee rosse non dovessero essere superate nel nuovo corso. Gusinsky fu indagato per frode fiscale, brevemente imprigionato e costretto a vendere le azioni a Gazprom, attuale proprietario dell’emittente in questione. Arkady Volozh, memore del precedente, ha saggiamente trovato e accettato con il governo un accordo “che non poteva rifiutare”.
Marco Leone