Come la Russia nei secoli si è appropriata di una delle regioni più remote al mondo.
I primi mesi del 2020 hanno dato una visibilità straordinaria alla parola “isolamento“. Sorprende moltissimi questa nuova condizione in cui i contatti umani sono ridotti drasticamente e se si vive lontani da giungle di cemento ci si ritrova a rimirare infiniti spazi e sovrumani silenzi in una campagna semi deserta, o meglio, popolata dalla natura. Ma se la parola “isolamento” forse solo ora, inaspettatamente, ci impone una attenta riflessione sul suo significato, ci sono regioni nel mondo in cui potrebbe essere tranquillamente definita come la condizione necessaria e sufficiente per esistere. Tra queste, particolarmente noto per la sua durezza è il Dalnyi Vostok russo, l’estremo oriente russo.
Attraversando la Siberia ci si concentra sul clima durissimo, il paesaggio brullo, e i magnifici e imponenti fiumi, così che quasi non ci si rende conto di essere sconfinati in quello che è in realtà è tutto un altro luogo, ove la crudeltà del clima continentale lascia quasi impercettibilmente spazio alla maggiore mitezza di un clima costiero.
La storia della politica estera russa è costellata da espansioni e contrizioni di portata enorme, che però non hanno mai afflitto in maniera cruciale la più remota regione del Paese.
La storia della Russia e di questo territorio si svolgono in parallelo, fino ad intrecciarsi definitivamente con l’annessione dell’area nel 1647 e la creazione del primo centro abitato sul Pacifico, Okhotsk. Sebbene infatti nel XVI secolo il nostro planisfero avesse ancora dei contorni sfumati, procacciatori di pellicce e Cosacchi erano già soliti spingersi fino a quei territori. Viaggi lunghi e spesso mortali, che garantivano però materie prime di una qualità rara. Il commercio di pellicce rappresentò a lungo per la Russia l’unica ragione di comunicazione con tali territori. Gli interessi degli zar (iniziando da Pietro il Grande) guardavano sempre ad Ovest.
Ed è proprio questo controllo estremamente blando che suggerisce come la conquista di questi territori sia stata naïve – non evidenziando una particolare strategia iniziale. A muovere l’espansione era il sempiterno cruccio del Paese di non avere uno sbocco su mari navigabili. Ma una volta raggiunto il Pacifico i mezzi di trasporto dell’epoca ancora non consentivano un utilizzo degno e costante del territorio. Le strade impraticabili d’inverno e in primavera spingevano all’utilizzo dei fiumi – fra tutti l’Amur – la cui vastità e violenza però rendevano ogni viaggio una scommessa.
Il commercio di pellicce rappresentò a lungo per la Russia l’unica ragione di comunicazione con tali territori.
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Ed è così che l’impero tentò di accaparrarsi un porto sul Baltico – da qui San Pietroburgo – e poi sul Mar Nero, con tutto ciò che ne derivò: guerre con gli svedesi, conquista del Caucaso, guerre con l’impero Ottomano e così via, senza contare la crescente ingerenza negli affari europei. L’estremo oriente sembrava troppo remoto persino per lo zeitgeist.
Ma era solo questione di tempo: all’avvio del XIX secolo gli eventi cominciati in Occidente coinvolgono sempre più velocemente tutto ciò che incontrano sul loro cammino, influenzando e modificando per sempre il modo di concepire le relazioni internazionali. Con la guerra di Crimea, a metà secolo, questi investono anche la Russia. L’impero improvvisamente realizza che la sua posizione nel mondo – fattosi improvvisamente piccolo e conquistabile – è molto labile. Nel 1859 viene fondata Vladivostok, assicurando così alla Russia un importante avamposto sul Pacifico. Ed ecco che dopo secoli di “inutilizzo“, l’estremo oriente russo diventa la meta.
A Pietroburgo iniziano così le discussioni per la costruzione di una delle opere più imponenti della seconda metà dell’Ottocento: la ferrovia transiberiana. Già solo l’individuazione di un possibile percorso, dei dettagli tecnici e dei relativi costi richiedono all’impero russo anni di forti diatribe e la creazione di diversi comitati.
Finalmente nel 1890 si avvia la costruzione dell’ultimo tratto di ferrovia, quello che avrebbe dovuto raggiungere Vladivostok. Tra le diverse ipotesi di percorso, una spicca tra tutte: il passaggio attraverso la Manciuria con l’aggiuntadi un’estensione ferroviaria che conducesse a Port Arthur (il cui porto, a differenza di Vladivostok, non ghiacciava mai). Se già la costruzione della ferrovia aveva destato l’attenzione internazionale, quest’ultima mossa amplificò molto il nervosismo delle altre potenze già da tempo impegnate in questa zona del Pacifico. La guerra russo-giapponese, conclusasi nel 1905 dopo una serie di brucianti sconfitte ai danni dello zar, ribadì non solo che la Russia non aveva i mezzi adatti a sostenere un conflitto, ma anche che nello scacchiere internazionale non godeva di alcuna simpatia.
Persa la penisola coreana, l’estremo oriente russo torna a un ruolo marginale nel periodo tra le due guerre mondiali, per poi rientrare in auge alla fine dello stalinismo. Infatti – riprendendo la pratica zarista – questi luoghi si rivelano molto adatti al confino di personaggi scomodi, attraverso la macchina brutale dei Gulag. Ma con l’avanzare della tecnica e della ricerca scientifica la regione smette di essere solo luogo di morte, e diventa un tesoro prezioso di minerali, riserve petrolifere – il carbone aveva già lasciato il posto al nuovo combustibile del mondo, il petrolio – e metalli preziosi. L’importanza del Dalnyi Vostok non è più solo geografica, ma si lega dunque in modo crescente al ruolo delle sue risorse. Anche oggi, a esperienza sovietica conclusa.
Resta però irrisolta una questione di fondo: perché proprio i russi si sono voluti spingere fin laggiù? E soprattutto, perché ci sono riusciti? Rispondere al quesito una volta per tutte significherebbe mettere la parola fine a una storia controversa e da sempre soggetta ad interpretazioni di più svariato genere. La storia della Russia in queste terre è una storia di fortuna? Probabilmente sì, se si interpretasse così la naturale (ma non disinteressata) curiosità di ogni popolo nella storia di spingersi sempre verso terre remote alla ricerca del nuovo.
Ma la vera fortuna della Russia in tutta probabilità consiste nel fatto di essere riuscita a riconfermare questi territori come propri dopo secoli di disinteresse, in un’epoca in cui la conquista predatoria delle terre metteva (come tuttora) a rischio ogni relazione bilaterale tra Stati. Volendo attribuire grande lungimiranza agli statisti russi della metà del XIX secolo, si potrebbe dire che correndo un grande rischio si sono assicurati un avamposto sull’oceano protagonista delle vicende centrali del XX e XXI secolo. Ed è questo il motivo per cui tuttora questa regione è oggetto di attenzioni da parte delle potenze “storiche”, tra cui annoveriamo Giappone e Stati Uniti, nonché dei nuovi protagonisti del XXI secolo, in primis la Cina.
Ciò non toglie però che alla Russia siano serviti circa quattro secoli per far sì che nella sua regione più remota l’aggettivo “isolato” non fosse più sinonimo di “ignorato”.