In Russia come in Italia, si moltiplicano i casi di violenza domestica a seguito dei confinamenti domiciliari per la pandemia. La risposta a questa “emergenza nell’emergenza” deve essere culturale, prima ancora che politica e legale.
La diffusione esponenziale dell’emergenza coronavirus è inevitabilmente scandita da una incessante e drammatica raccolta di dati che, al fine di misurare l’estensione e l’evoluzione della pandemia, trasformano la tragedia del contagio e delle vittime in numeri.
Secondo i recenti dati (30 aprile, ndr) elaborati dalla Johns Hopkins University, il numero complessivo dei contagi accertati sarebbe di circa 2,3 milioni, con oltre 160 mila morti nel mondo. Soltanto in Italia, secondo i dati della Protezione Civile, aggiornati alla fine del mese di aprile, si contano 201.505 casi e 27.359 decessi. Anche nei Paesi in cui il virus è arrivato più tardi, come in Russia, i dati, seppur ancora considerevolmente contenuti, sembrano crescere inesorabilmente, tanto che, dall’adozione delle prime misure di contenimento, sono stati registrati oltre 99 mila contagi e quasi 1000 morti.
Parallelamente e collateralmente ai dati “calcolabili” della pandemia si è fatto avanti, in proporzioni ormai incalcolabili, un fenomeno patologico che dilaga incontrollato e sommerso all’interno delle mura domestiche: la violenza sulle donne.
Che l’incremento della violenza sulle donne sia connesso all’attuale situazione di lockdown è, senza alcun dubbio, una cruda realtà che innalza il livello di criticità di questa pandemia globale. Sembrerebbe, infatti, che, soprattutto in contesti sociali già a rischio, al di là dei confini, delle diversità sociali, economiche o politiche, la condizione di isolamento e convivenza forzati nel proprio domicilio abbia portato ad azioni di violenza sulle donne, culminate talvolta in omicidi efferati. Mogli, compagne, fidanzate, madri vittime non del Covid-19, ma di un uomo e non perché infette, ma solo perché nate donne.
Il 31 marzo a Furci Siculo, in provincia di Messina, Lorena Quaranta, giovane studentessa di medicina, è stata brutalmente uccisa dal compagno, nell’appartamento in cui vivevano insieme. La sera del 17 aprile a Roma, in zona Capannelle, una donna è stata massacrata dall’ ex compagno, il quale, senza alcuna pietà, l’ha presa a martellate fino a che il manico del fendente non ha ceduto, lasciandola in terra quasi esanime. Nella notte del 19 aprile a Truccazzano, nel milanese, Alessandra Cità è stata uccisa con un colpo d’arma da fuoco, esploso dall’ex compagno, con il quale ancora conviveva a causa delle restrizioni per il Covid. Dopo nemmeno 24 ore, a Lanuvio (Roma), un’altra giovane donna, ricoverata e ancora in pericolo di vita, è stata accoltellata all’addome e alla schiena dal proprio compagno.
A migliaia di chilometri di distanza, nella periferia di Mosca, Angelina, una giovane donna russa ripetutamente abusata e picchiata dal marito, è scappata via di casa portando con sé i due figli piccoli, nel timore che l’isolamento forzoso si trasformasse in un incubo senza risveglio. Diversamente, Maria (il cui vero nome rimane celato a garanzia dell’anonimato), ha raccontato alla BBC Russian di essere rimasta bloccata in casa con il proprio aggressore (il marito) e di non aver ricevuto alcuna assistenza dalla polizia locale, nonostante le sue richieste di aiuto.
Da Messina a Mosca, queste notizie drammatiche danno volti e nomi ad un’emergenza sociale mondiale che, nella pandemia, ha trovato un clima favorevole alla sua esplosiva, ma silente, espansione. Le misure restrittive e l’isolamento imposto dalla necessità di contenimento del virus, infatti, in certi contesti familiari, spesso già fragili, trasformano involontariamente “la casa” nel contenitore blindato in cui poter racchiudere ogni forma di abuso e violenza, al riparo da ogni interferenza esterna.
Dubravka Šimonović, relatore speciale delle Nazioni Unite per la violenza contro le donne, è stata tra le prime a lanciare l’allarme sull’incremento degli episodi di violenza, esprimendo grande preoccupazione e solidarietà per le donne e i bambini costretti a vivere “la casa” come luogo di paura ed abuso.
Sul fronte europeo Marceline Naudi, presidente del “Gruppo di esperti sull’azione contro la violenza sulle donne” del Consiglio d’Europa, ha lanciato un appello “a fare tutto il possibile perché non si interrompa il sostegno e la protezione a favore delle donne a rischio di violenza“, incentivando l’uso di “soluzioni innovative“, quali, ad esempio, “campagne informative, moduli di domanda online per la richiesta di protezione o l’inclusione dei servizi di supporto alla vittime tra i servizi essenziali“.
Un po’ più ad est Mary Davtyan, avvocato russo e direttrice del “Center for the Protection of Victims of Domestic Violence“, ha espresso e condiviso pubblicamente – mediante interviste su svariati quotidiani russi – le medesime preoccupazioni. La sua denuncia ha fatto leva sull’assenza di strumenti legislativi adeguati a tutelare le vittime, oltre che sulla concezione ancora patriarcale della società e della famiglia, in cui la violenza viene frequentemente tollerata, e finanche giustificata, quale mezzo di educazione e potere sull’altro.
Dagli anni ’90 ad oggi, in Russia, sono state proposte – e respinte – circa 40 bozze di legge volte a prevenire, riconoscere e combattere la violenza sulle donne.
Cupcake Ipsum, 2015
Alla diffusione capillare e ultra territoriale della violenza di genere non corrisponde, di contro, una omogenea e adeguata rete di supporto alle vittime, né tantomeno una risposta governativa e legislativa idonea ad arginare e reprimere l’escalation di violenze. In Italia, in cui – secondo gli ultimi dati Istat – si contano circa 150 vittime di ‘femminicidio’ all’anno, nonché migliaia di donne vittime di abusi e violenze (con una media di una richiesta di aiuto ogni mille donne), il tema della violenza di genere è al centro di un mai sopito dibattito socio-politico.
Il sistema penale italiano, infatti, per quanto giuridicamente evoluto, si è rivelato inadeguato a garantire sufficientemente le vittime: le lungaggini processuali e burocratiche, unitamente alla carenza di adeguate reti sociali di supporto e ad un garantismo necessario, talvolta si rivelano fatali. Da ultimo, infatti, la legge n. 69/2019 ha introdotto numerose modifiche al codice penale, al codice di rito e ad altre disposizioni, con l’obiettivo di assicurare la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in conformità a quanto stabilito sul punto dalla Convenzione di Istanbul (2011), primo strumento internazionale e giuridicamente vincolante “sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica”. Anche dal punto di vista giurisdizionale, solo di recente il Consiglio Superiore della Magistratura ha adottato la risoluzione sulle linee guida in tema di trattazione dei procedimenti per reati di violenza di genere e domestica, al fine di snellire le fasi e rafforzare la tutela.
Un percorso di “lotta” istituzionale, purtroppo ancora embrionale, che potrebbe subire un duro arresto in conseguenza dell’emergenza Covid, dentro le cui maglie si annidano e si moltiplicano gli episodi di violenza. Al fine di arginare questo “dramma nel dramma”, in Italia è stata lanciata la campagna di sensibilizzazione “Libera puoi“, promossa dal Dipartimento per le Pari opportunità, per promuovere dei canali di supporto alle vittime più agili e immediati, quali il numero 1522 (attivo h 24), e la relativa applicazione “1522”, e l’app “YouPol”, direttamente riferibile alla Polizia di Stato. Strumenti, questi ultimi, ai quali si affianca il prezioso operato delle case rifugio e dei centri antiviolenza, che, seppur con non poche difficoltà e limitazioni, hanno cercato di garantire la loro operatività anche durante l’attuale emergenza sanitaria. A loro sostegno si è mosso il Ministero pe le Pari opportunità che ha erogato 30 milioni di fondi antiviolenza.
In Russia, di contro, a causa dell’epidemia in atto, i pochi rifugi e centri di accoglienza che normalmente offrono consulenza alle donne maltrattate sono stati costretti a chiudere le loro porte.
Oksana Pushkina, presidente del Comitato della Duma di Stato per le donne, i bambini e le famiglie, ha sostenuto l’appello lanciato al governo dalle molteplici organizzazioni umanitarie attive sul territorio per l’intervento di supporto ai centri di accoglienza, la diffusione di campagne di informazione pubblica, nonché il rafforzamento delle leggi sul tema, con previsione di esonero da multe e sanzioni per le vittime di violenza domestica costrette a trasgredire gli attuali divieti per salvaguardare la propria integrità, mediante la fuga o l’allontanamento dal proprio domicilio. Richieste di intervento urgenti che sembrano rimbalzare, ancora una volta, contro il muro di gomma costituito dall’indifferenza e, ancor peggio, dalla complicità di un certo anacronistico, e finanche criminale, conservatorismo ortodosso.
Dagli anni ’90 ad oggi, infatti, sono state proposte – e respinte senza successo – circa 40 bozze di legge volte a prevenire, riconoscere e combattere la violenza sulle donne. Ma vi è di più. Nel 2017 la già precaria cornice legale si è ulteriormente deteriorata, in conseguenza dell’intervento della Duma di Stato che ha depenalizzato la violenza domestica. Atto compiuto in ossequio ad un inaccettabile richiamo ai valori della “famiglia tradizionale”, innalzati a vessillo della campagna conservatrice promossa dalla parlamentare Yelena Mizulina.
Peraltro, in realtà politico-culturali come quella post sovietica, anche l’esatta individuazione numerica dei casi di violenza di genere risulta un’operazione particolarmente complessa, di fatto ostacolata da un assetto giuridico carente e inadeguato a tutelare le vittime e persino ad individuarle come tali, al di là dei casi tristemente noti alla cronaca nera mondiale per la loro efferatezza (emblematico, in tal senso, il caso delle sorelle Khachaturyan, che accoltellarono loro padre dopo aver sofferto di anni di abuso psicologico e sessuale, e quello di Margarita Gracheva, alla quale il marito ha tagliato le mani, menomandola fisicamente e psicologicamente, in modo irreparabile).
La situazione attuale, purtroppo, ci costringe ad un incessante e macabro rimestare di statistiche e bilanci, in cui il numero dei morti da Covid si somma a quello delle donne vittime di violenza, configurando un’addizione fatale.
Se è vero, però, che all’introduzione delle misure di contenimento (addendo straordinario) corrisponde “matematicamente” un incremento notevole della violenza domestica, è pur vero che, per ottenere un risultato diverso, è indispensabile modificare l’addendo (purtroppo presente in tutte le realtà economiche e sociali moderne) di cui ogni società è responsabile: la diffusione e la tolleranza di una cultura machista e patriarcale, che “educa” gli uomini alla violenza.
Pare, allora, che l’unica formula risolutiva in grado di aspirare all’azzeramento di questi numeri, sia un’equazione culturale che combini il ripudio della violenza ad una complessa opera di rieducazione al rispetto e all’uguaglianza, oltre che di alfabetizzazione emotiva. Così da formare nuove generazioni che, forse più consapevoli e mature, saranno finalmente in grado di onorare, non solo formalmente, i valori democratici e il concetto di parità di genere.
Silvia Zuppelli